Il segno ungherese del plurale è -K, presente non solo nel plurale di sostantivi, aggettivi e pronomi, ma curiosamente anche in tutte le persone verbali plurali. Come se in italiano la -i di gatti fosse anche il segno della terza persona plulare del verbo miagolare, così da avere frasi come:
i gatti miagoli oppure le rane salte
Ecco alcuni esempi di parole plurali con diverse valenze grammaticali:
barátok, “amici”, sostantivo
kedvesek, “gentili”, aggettivo
akik, “coloro i quali”, pronome
élünk, “viviamo”, forma verbale
mondtatok, “avete detto”, forma verbale
i gatti miagoli oppure le rane salte
Ecco alcuni esempi di parole plurali con diverse valenze grammaticali:
barátok, “amici”, sostantivo
kedvesek, “gentili”, aggettivo
akik, “coloro i quali”, pronome
élünk, “viviamo”, forma verbale
mondtatok, “avete detto”, forma verbale
lássanak, “che vedano loro”, forma verbale
Sì, é vero, non tutte le -K finali sono plurali (cfr: eszik “lui mangia”, vak “cieco”, gyík “lucertola”...), così come esistono casi in cui il plurale non é cappatico, bensì prende la i come i pronomi personali “noi” e “voi” (mi e ti) ed il possessivo quando il plurale sta nelle cose possedute (egy gyerek álmai : “i sogni d'un bambino”). Al di là di questi casi, l'univocità dei significati e, se vogliamo, la loro preponderanza rispetto al ruolo grammaticale, suggerisce di avere a che fare con una lingua profondamente arcaica. Merita una nota anche l'uso che l'ungherese fa del plurale, che è strutturalmente molto diverso dal nostro. Confrontiamo due frasi equivalenti in italiano ed in ungherese:
Le attraenti ragazze ungheresi
Sì, é vero, non tutte le -K finali sono plurali (cfr: eszik “lui mangia”, vak “cieco”, gyík “lucertola”...), così come esistono casi in cui il plurale non é cappatico, bensì prende la i come i pronomi personali “noi” e “voi” (mi e ti) ed il possessivo quando il plurale sta nelle cose possedute (egy gyerek álmai : “i sogni d'un bambino”). Al di là di questi casi, l'univocità dei significati e, se vogliamo, la loro preponderanza rispetto al ruolo grammaticale, suggerisce di avere a che fare con una lingua profondamente arcaica. Merita una nota anche l'uso che l'ungherese fa del plurale, che è strutturalmente molto diverso dal nostro. Confrontiamo due frasi equivalenti in italiano ed in ungherese:
Le attraenti ragazze ungheresi
A vonzó magyar lányok
L'italiano deve specificare il numero in ogni singola parola, mentre per l'ungherese basta mettere il segno un'unica volta per rendere plurale tutta la parte nominale. Se dovessimo, invece, aggiungere un verbo di modo finito, questo andrebbe concordato secondo numero:
A vonzó magyar lányok tetszenek (“le attraenti ragazze ungheresi mi piacciono”).
A vonzó magyar lányok tetszenek (“le attraenti ragazze ungheresi mi piacciono”).
Direi che ancora più interessante è il caso in cui nella frase c'è un aggettivo indefinito o numerale:
Molte belle ragazze ungheresi amano l'italiano
Sok szép magyar lány szereti az olaszt
Come si può vedere, l'unica informazione del plurale è l'aggettivo sok, tutto ciò che segue, compreso il verbo, ha forma singolare, ma significato plurale. Si può dire che la frase segua l'espressione algebrica N (a+b+c) , dove N sta per il numerale ed a, b e c stanno per aggettivo, nome e verbo. Inaspettatamente questa piccola ma stucchevole premessa grammaticale in realtà mi vuole portare a parlare d'amore. Ma non in senso generico: quasto usato ed abusato trisillabo nella nostra lingua può significare tutto ed anche il suo contrario. Io vorrei invece concentrarmi prevalentemente su un unico significato, quello che ci viene tramandato da secoli di cultura greco-romana e poi giudaico-cristiana, quel sentimento totalmente disinteressato, comunemente detto vero amore, mirante soltanto al bene dell'altro e che può essere forse ben espresso col termine tecnico di carità. A pensarci bene il plurale è il primo passo verso l'abbandono dell'egoismo e verso un più alto modo di amare.
Per la partenza di questo breve ed assolutamente non esaustivo tour attraverso la lingua del vero amore non si può non scegliere il più grande Maestro del vero amore, oserei dirne l'inventore. Ecco il virgolettato che, molto indegnamente, mi permetto di citare nella sua traduzione italiana, con l'unico scopo di parlare di lingua (Gv, 15, 13, edizione CEI 2013):
“Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”
In questa frase compaiono le due parole da cui parte la nostra piccola inchiesta linguistica: amore ovviamente, ed amici.
Diciamo subito che la parola presente nella Vulgata non è amor, ma dilectatio: probabilmente l'autore ha ritenuto il primo termine non adeguato perché già nel primo secolo comprendeva tanti significati differenti, come ad esempio “desiderio”, che potevano essere addirittura antitetici a quanto si intendeva qui esprimere. Il verbo diligere, invece, presuppone una predilezione, la scelta di amare, che è evidentemente consapevole.
La parola amico, invece, sarebbe molto legata ad amore dalla loro comune radice che ritroviamo addirittura nel sanscrito (cfr: kamami “io desidero”, “io amo”), nell'armeno e nell'antico persiano. Ci aspetteremmo, dunque, una sorta di contraddizione nell'utilizzo di questa parola, che alluderebbe a modi meno santi dell'amare. In effetti succederà che nel medioevo, precisamente nella letteratura cortese-cavalleresca, amico tornerà ad assumere l'antica valenza passionale e sarà segnale che equivale ad amante nell'accezione moderna del termine, vale a dire di relazione extra coniugale. Come spiegarci allora la comparsa di questo termine nella citazione? Beh, dal latino arcaico a quello classico la parola ha passato secoli di mutazioni semantiche che l'hanno arricchita di nuovi significati poi diventati preponderanti, tanto da far derivare la cosa dalla persona: da amico si ha amicizia, mentre nell'altro caso è dal sentimento che si ha la persona: da amore si ha innamorato, amato, etc.
Però personalmente mi piace dare grande importanza a quella che è senza dubbio una lettura illuminante che dovrebbe occorrere a tutti i ragazzi che a scuola si cimentano nello studio del latino e dei classici, una pietra miliare nella crescita non tanto a livello di studente quanto di persona: parlo del Laelius, il dialogo ciceroniano sull'amicizia.
Cicerone, attraverso la figura di Scipione l'Emiliano, per la prima volta nel mondo latino, dà all'amicizia un valore assoluto che esula dal carattere eminentemente strumentale peculiare del mondo politico romano. L'amico qui è definito come portatore di una virtù filosofica trascendente che rappresenta il vero bene che nessuno potrà mai sottrargli. L'amicizia nasce così dal riconoscimento nell'altro di questa virtù, ed è giocoforza che solo le persone oneste (virtuose) possano essere tra loro veramente amiche.
Insomma, nella penna dei Padri della Vulgata, mentre vergavano il foglio con questa parola, c'erano senz'altro secoli di differenti costumi, di cambiamenti linguistici, numerosi mutamenti dell'uso lessicale, tanti anni di filosofia e c'era anche il nostro Marco Tullio con il suo Laelius.
Ecco come appare la citazione evangelica in una delle prime traduzioni ungheresi (Károli Gaspár, 1590):
“Nincsen senkiben nagyobb szeretet annál, mintha valaki életét adja az ő barátaiért”
Senza starne ad analizzare puntualmente l'intera grammatica, prendiamo dalla frase le sole due parole che ci interessano: szeretet e barát.
Se con barát, similmente con quanto succede per esempio in inglese, possiamo tanto riferirci ad un comune amico quanto ad un fidanzato (e ció per le ungheresi in Italia puó dare adito a più o meno inconsapevoli fraintendimenti), per quanto riguarda la voce che traduce il nostro amore, l'ungherese non lascia scampo ad equivoci. Esistono infatti due distinte voci, l'una intende “affetto” in senso anche cristiano, szeretet appunto, l'altra invece designa il sentimento passionale amoroso: szerelem. Noi al di qua del Danubio abbiamo coniato ad arte l'artificiosa locuzione volere bene per non creare imbarazzanti incomprensioni. Esiste qui da noi una mastodontica letteratura erotica che trae linfa dall'immortale dicotomia amore vs voler bene, iniziata proprio dai contraddittori comportamenti di quella Lesbia che cogit amare maius sed bene velle minus. Si trattava evidentemente di una passione non proprio edificante per il povero Catullo, che si ritrovò a rasentare la pazzia. E nacque così il grande modello di tutti gli amori disperati della letteratura occidentale. Molto szerelem (e non del tutto corrisposto) e pochissimo szeretet. Chi invece per prova conosce il vero amore, sa bene che esso è forza creatrice e nobilitante, raffina l'animo dell'amante quando questi non ha alcuna mira ad eventuali premi. Dante ed i poeti d'amore lo avevano capito bene, tanto da trovare la beatitudine nella sola lode dell'amata. Spesso le loro strane donne letterarie ricche di caratteristiche più che umane, trovano una prematura morte per il semplice motivo che é narratologicamente funzionale all'evoluzione dell'amante, egli deve necessariamente fare un salto di qualità: rimanerle fedele non potendo ovviamente riceverne alcuna ricompensa.
L'amore ha una fondamentale caratteristica che la lingua ungherese sembra aver intuito. Diamo un'occhiata alla divisione dei morfi delle parole ungheresi dell'amore.
SZER-ET : amare
SZER-ET-ET : affetto, carità
SZER-ELEM : amore
Il mistero dell'amore ungherese si cela nella radice -SZER- e probabilmente non ha una soluzione soddisfacente per gli uomini di scienza abituati a pensare in termini di calcoli di probabilitá. In effetti niente è meno probabile dell'amore: qualcosa che non prevede nulla in cambio, anzi richiede sacrificio di noi stessi ed incrollabile fede, come testimonia l'origine del verbo credere che significa letteralmente “dare il cuore” (vedi: credo > cor+do). Credendo nelle probabilitá, l'amore non dovrebbe affatto esistere. Noi, peró, che abbiamo imparato ad avere fede nel tesoro di parole tramandatoci dagli antenati, crediamo che non esistano parole dette a caso. A volte alcune parole sembrano confonderci proprio come fa un falso amore: SZER-EZ “procurarsi, ottenere”, o SZER-EL “riparare”, perdiamo l'orientamento quando troviamo parole che non ci aspettiamo, che non sembrano avere logica: GYÓGY-SZER “farmaco”, NAGY-SZER-Ű “grandioso”. Ma in fondo si tratta di trovare un segno, un cartello stradale che ci indichi una direzione dove ci sia più luce e l'aria sia più pulita. Crediamo che prima o poi anche le deviazioni dal percorso ci sveleranno un senso. Il mio percorso ha deviato fino alla voce SZER-SZÁM “stampo”. Lo stampo taglia un dato materiale per fare lo stesso prodotto una o più volte insieme a seconda di quante figure dispone. Per non perdersi bisogna ripercorrere mentalmente tutto il cammino fatto una, due volte, tre volte, quattro volte. In ungherese EGY-SZER “una volta”, KÉT-SZER, due volte, tre HÁROM-SZOR,...
La particella -szer/-ször/-szor racchiude al suo interno il concetto di moltiplicazione. Le espressioni matematiche del tipo “2 x 7” si leggono in ungherese KÉT-SZER HÉT, letteralmente “due volte sette”. L'amore agli occhi della lingua magiara è la forza che produce, crea, anzi, moltiplica. Questo è indubbiamente vero se pensiamo alla riproduzione, ma se fosse tutto qui sarebbe piuttosto riduttivo. L'amore, quell'improbabilissimo vero miracolo che avviene tutti i giorni nel cuore di bambini, donne e uomini, moltiplica e si moltiplica. Pensi che amare più di così sia impossibile, che umanamente non ce la puoi fare. Poi diventi genitore.
E l'amore di cui si è capaci miracolosamente si moltiplica con ogni figlio che accogli.
Buon Natale e felice anno nuovo!
Molte belle ragazze ungheresi amano l'italiano
Sok szép magyar lány szereti az olaszt
Come si può vedere, l'unica informazione del plurale è l'aggettivo sok, tutto ciò che segue, compreso il verbo, ha forma singolare, ma significato plurale. Si può dire che la frase segua l'espressione algebrica N (a+b+c) , dove N sta per il numerale ed a, b e c stanno per aggettivo, nome e verbo. Inaspettatamente questa piccola ma stucchevole premessa grammaticale in realtà mi vuole portare a parlare d'amore. Ma non in senso generico: quasto usato ed abusato trisillabo nella nostra lingua può significare tutto ed anche il suo contrario. Io vorrei invece concentrarmi prevalentemente su un unico significato, quello che ci viene tramandato da secoli di cultura greco-romana e poi giudaico-cristiana, quel sentimento totalmente disinteressato, comunemente detto vero amore, mirante soltanto al bene dell'altro e che può essere forse ben espresso col termine tecnico di carità. A pensarci bene il plurale è il primo passo verso l'abbandono dell'egoismo e verso un più alto modo di amare.
Per la partenza di questo breve ed assolutamente non esaustivo tour attraverso la lingua del vero amore non si può non scegliere il più grande Maestro del vero amore, oserei dirne l'inventore. Ecco il virgolettato che, molto indegnamente, mi permetto di citare nella sua traduzione italiana, con l'unico scopo di parlare di lingua (Gv, 15, 13, edizione CEI 2013):
“Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”
In questa frase compaiono le due parole da cui parte la nostra piccola inchiesta linguistica: amore ovviamente, ed amici.
Diciamo subito che la parola presente nella Vulgata non è amor, ma dilectatio: probabilmente l'autore ha ritenuto il primo termine non adeguato perché già nel primo secolo comprendeva tanti significati differenti, come ad esempio “desiderio”, che potevano essere addirittura antitetici a quanto si intendeva qui esprimere. Il verbo diligere, invece, presuppone una predilezione, la scelta di amare, che è evidentemente consapevole.
La parola amico, invece, sarebbe molto legata ad amore dalla loro comune radice che ritroviamo addirittura nel sanscrito (cfr: kamami “io desidero”, “io amo”), nell'armeno e nell'antico persiano. Ci aspetteremmo, dunque, una sorta di contraddizione nell'utilizzo di questa parola, che alluderebbe a modi meno santi dell'amare. In effetti succederà che nel medioevo, precisamente nella letteratura cortese-cavalleresca, amico tornerà ad assumere l'antica valenza passionale e sarà segnale che equivale ad amante nell'accezione moderna del termine, vale a dire di relazione extra coniugale. Come spiegarci allora la comparsa di questo termine nella citazione? Beh, dal latino arcaico a quello classico la parola ha passato secoli di mutazioni semantiche che l'hanno arricchita di nuovi significati poi diventati preponderanti, tanto da far derivare la cosa dalla persona: da amico si ha amicizia, mentre nell'altro caso è dal sentimento che si ha la persona: da amore si ha innamorato, amato, etc.
Però personalmente mi piace dare grande importanza a quella che è senza dubbio una lettura illuminante che dovrebbe occorrere a tutti i ragazzi che a scuola si cimentano nello studio del latino e dei classici, una pietra miliare nella crescita non tanto a livello di studente quanto di persona: parlo del Laelius, il dialogo ciceroniano sull'amicizia.
Cicerone, attraverso la figura di Scipione l'Emiliano, per la prima volta nel mondo latino, dà all'amicizia un valore assoluto che esula dal carattere eminentemente strumentale peculiare del mondo politico romano. L'amico qui è definito come portatore di una virtù filosofica trascendente che rappresenta il vero bene che nessuno potrà mai sottrargli. L'amicizia nasce così dal riconoscimento nell'altro di questa virtù, ed è giocoforza che solo le persone oneste (virtuose) possano essere tra loro veramente amiche.
Insomma, nella penna dei Padri della Vulgata, mentre vergavano il foglio con questa parola, c'erano senz'altro secoli di differenti costumi, di cambiamenti linguistici, numerosi mutamenti dell'uso lessicale, tanti anni di filosofia e c'era anche il nostro Marco Tullio con il suo Laelius.
Ecco come appare la citazione evangelica in una delle prime traduzioni ungheresi (Károli Gaspár, 1590):
“Nincsen senkiben nagyobb szeretet annál, mintha valaki életét adja az ő barátaiért”
Senza starne ad analizzare puntualmente l'intera grammatica, prendiamo dalla frase le sole due parole che ci interessano: szeretet e barát.
Se con barát, similmente con quanto succede per esempio in inglese, possiamo tanto riferirci ad un comune amico quanto ad un fidanzato (e ció per le ungheresi in Italia puó dare adito a più o meno inconsapevoli fraintendimenti), per quanto riguarda la voce che traduce il nostro amore, l'ungherese non lascia scampo ad equivoci. Esistono infatti due distinte voci, l'una intende “affetto” in senso anche cristiano, szeretet appunto, l'altra invece designa il sentimento passionale amoroso: szerelem. Noi al di qua del Danubio abbiamo coniato ad arte l'artificiosa locuzione volere bene per non creare imbarazzanti incomprensioni. Esiste qui da noi una mastodontica letteratura erotica che trae linfa dall'immortale dicotomia amore vs voler bene, iniziata proprio dai contraddittori comportamenti di quella Lesbia che cogit amare maius sed bene velle minus. Si trattava evidentemente di una passione non proprio edificante per il povero Catullo, che si ritrovò a rasentare la pazzia. E nacque così il grande modello di tutti gli amori disperati della letteratura occidentale. Molto szerelem (e non del tutto corrisposto) e pochissimo szeretet. Chi invece per prova conosce il vero amore, sa bene che esso è forza creatrice e nobilitante, raffina l'animo dell'amante quando questi non ha alcuna mira ad eventuali premi. Dante ed i poeti d'amore lo avevano capito bene, tanto da trovare la beatitudine nella sola lode dell'amata. Spesso le loro strane donne letterarie ricche di caratteristiche più che umane, trovano una prematura morte per il semplice motivo che é narratologicamente funzionale all'evoluzione dell'amante, egli deve necessariamente fare un salto di qualità: rimanerle fedele non potendo ovviamente riceverne alcuna ricompensa.
L'amore ha una fondamentale caratteristica che la lingua ungherese sembra aver intuito. Diamo un'occhiata alla divisione dei morfi delle parole ungheresi dell'amore.
SZER-ET : amare
SZER-ET-ET : affetto, carità
SZER-ELEM : amore
Il mistero dell'amore ungherese si cela nella radice -SZER- e probabilmente non ha una soluzione soddisfacente per gli uomini di scienza abituati a pensare in termini di calcoli di probabilitá. In effetti niente è meno probabile dell'amore: qualcosa che non prevede nulla in cambio, anzi richiede sacrificio di noi stessi ed incrollabile fede, come testimonia l'origine del verbo credere che significa letteralmente “dare il cuore” (vedi: credo > cor+do). Credendo nelle probabilitá, l'amore non dovrebbe affatto esistere. Noi, peró, che abbiamo imparato ad avere fede nel tesoro di parole tramandatoci dagli antenati, crediamo che non esistano parole dette a caso. A volte alcune parole sembrano confonderci proprio come fa un falso amore: SZER-EZ “procurarsi, ottenere”, o SZER-EL “riparare”, perdiamo l'orientamento quando troviamo parole che non ci aspettiamo, che non sembrano avere logica: GYÓGY-SZER “farmaco”, NAGY-SZER-Ű “grandioso”. Ma in fondo si tratta di trovare un segno, un cartello stradale che ci indichi una direzione dove ci sia più luce e l'aria sia più pulita. Crediamo che prima o poi anche le deviazioni dal percorso ci sveleranno un senso. Il mio percorso ha deviato fino alla voce SZER-SZÁM “stampo”. Lo stampo taglia un dato materiale per fare lo stesso prodotto una o più volte insieme a seconda di quante figure dispone. Per non perdersi bisogna ripercorrere mentalmente tutto il cammino fatto una, due volte, tre volte, quattro volte. In ungherese EGY-SZER “una volta”, KÉT-SZER, due volte, tre HÁROM-SZOR,...
La particella -szer/-ször/-szor racchiude al suo interno il concetto di moltiplicazione. Le espressioni matematiche del tipo “2 x 7” si leggono in ungherese KÉT-SZER HÉT, letteralmente “due volte sette”. L'amore agli occhi della lingua magiara è la forza che produce, crea, anzi, moltiplica. Questo è indubbiamente vero se pensiamo alla riproduzione, ma se fosse tutto qui sarebbe piuttosto riduttivo. L'amore, quell'improbabilissimo vero miracolo che avviene tutti i giorni nel cuore di bambini, donne e uomini, moltiplica e si moltiplica. Pensi che amare più di così sia impossibile, che umanamente non ce la puoi fare. Poi diventi genitore.
E l'amore di cui si è capaci miracolosamente si moltiplica con ogni figlio che accogli.
Buon Natale e felice anno nuovo!
