sabato 26 dicembre 2015

Cos'è che ci cattura e tutto ci moltiplica. Puntata decima.

Il segno ungherese del plurale è -K, presente non solo nel plurale di sostantivi, aggettivi e pronomi, ma curiosamente anche in tutte le persone verbali plurali. Come se in italiano la -i di gatti fosse anche il segno della terza persona plulare del verbo miagolare, così da avere frasi come:

i gatti miagoli oppure le rane salte

Ecco alcuni esempi di parole plurali con diverse valenze grammaticali:

barátok, “amici”, sostantivo
kedvesek, “gentili”, aggettivo
akik, “coloro i quali”, pronome
élünk, “viviamo”, forma verbale
mondtatok, “avete detto”, forma verbale
lássanak, “che vedano loro”, forma verbale

Sì, é vero, non tutte le -K finali sono plurali (cfr: eszik “lui mangia”, vak “cieco”, gyík “lucertola”...), così come esistono casi in cui il plurale non é cappatico, bensì prende la i come i pronomi personali “noi” e “voi” (mi e ti) ed il possessivo quando il plurale sta nelle cose possedute (egy gyerek álmai : “i sogni d'un bambino”). Al di là di questi casi, l'univocità dei significati e, se vogliamo, la loro preponderanza rispetto al ruolo grammaticale, suggerisce di avere a che fare con una lingua profondamente arcaica. Merita una nota anche l'uso che l'ungherese fa del plurale, che è strutturalmente molto diverso dal nostro. Confrontiamo due frasi equivalenti in italiano ed in ungherese:

Le attraenti ragazze ungheresi
A vonzó magyar lányok
 
L'italiano deve specificare il numero in ogni singola parola, mentre per l'ungherese basta mettere il segno un'unica volta per rendere plurale tutta la parte nominale. Se dovessimo, invece, aggiungere un verbo di modo finito, questo andrebbe concordato secondo numero:

A vonzó magyar lányok tetszenek (“le attraenti ragazze ungheresi mi piacciono”).
 
Direi che ancora più interessante è il caso in cui nella frase c'è un aggettivo indefinito o numerale:

Molte belle ragazze ungheresi amano l'italiano
Sok szép magyar lány szereti az olaszt

Come si può vedere, l'unica informazione del plurale è l'aggettivo sok, tutto ciò che segue, compreso il verbo, ha forma singolare, ma significato plurale. Si può dire che la frase segua l'espressione algebrica N (a+b+c) , dove N sta per il numerale ed a, b e c stanno per aggettivo, nome e verbo. Inaspettatamente questa piccola ma stucchevole premessa grammaticale in realtà mi vuole portare a parlare d'amore. Ma non in senso generico: quasto usato ed abusato trisillabo nella nostra lingua può significare tutto ed anche il suo contrario. Io vorrei invece concentrarmi prevalentemente su un unico significato, quello che ci viene tramandato da secoli di cultura greco-romana e poi giudaico-cristiana, quel sentimento totalmente disinteressato, comunemente detto vero amore, mirante soltanto al bene dell'altro e che può essere forse ben espresso col termine tecnico di carità. A pensarci bene il plurale è il primo passo verso l'abbandono dell'egoismo e verso un più alto modo di amare.
Per la partenza di questo breve ed assolutamente non esaustivo tour attraverso la lingua del vero amore non si può non scegliere il più grande Maestro del vero amore, oserei dirne l'inventore. Ecco il virgolettato che, molto indegnamente, mi permetto di citare nella sua traduzione italiana, con l'unico scopo di parlare di lingua (Gv, 15, 13, edizione CEI 2013):

Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici

In questa frase compaiono le due parole da cui parte la nostra piccola inchiesta linguistica: amore ovviamente, ed amici.
Diciamo subito che la parola presente nella Vulgata non è amor, ma dilectatio: probabilmente l'autore ha ritenuto il primo termine non adeguato perché già nel primo secolo comprendeva tanti significati differenti, come ad esempio “desiderio”, che potevano essere addirittura antitetici a quanto si intendeva qui esprimere. Il verbo diligere, invece, presuppone una predilezione, la scelta di amare, che è evidentemente consapevole.
La parola amico, invece, sarebbe molto legata ad amore dalla loro comune radice che ritroviamo addirittura nel sanscrito (cfr: kamami “io desidero”, “io amo”), nell'armeno e nell'antico persiano. Ci aspetteremmo, dunque, una sorta di contraddizione nell'utilizzo di questa parola, che alluderebbe a modi meno santi dell'amare. In effetti succederà che nel medioevo, precisamente nella letteratura cortese-cavalleresca, amico tornerà ad assumere l'antica valenza passionale e sarà segnale che equivale ad amante nell'accezione moderna del termine, vale a dire di relazione extra coniugale. Come spiegarci allora la comparsa di questo termine nella citazione? Beh, dal latino arcaico a quello classico la parola ha passato secoli di mutazioni semantiche che l'hanno arricchita di nuovi significati poi diventati preponderanti, tanto da far derivare la cosa dalla persona: da amico si ha amicizia, mentre nell'altro caso è dal sentimento che si ha la persona: da amore si ha innamorato, amato, etc.
Però personalmente mi piace dare grande importanza a quella che è senza dubbio una lettura illuminante che dovrebbe occorrere a tutti i ragazzi che a scuola si cimentano nello studio del latino e dei classici, una pietra miliare nella crescita non tanto a livello di studente quanto di persona: parlo del Laelius, il dialogo ciceroniano sull'amicizia.
Cicerone, attraverso la figura di Scipione l'Emiliano, per la prima volta nel mondo latino, dà all'amicizia un valore assoluto che esula dal carattere eminentemente strumentale peculiare del mondo politico romano. L'amico qui è definito come portatore di una virtù filosofica trascendente che rappresenta il vero bene che nessuno potrà mai sottrargli. L'amicizia nasce così dal riconoscimento nell'altro di questa virtù, ed è giocoforza che solo le persone oneste (virtuose) possano essere tra loro veramente amiche.
Insomma, nella penna dei Padri della Vulgata, mentre vergavano il foglio con questa parola, c'erano senz'altro secoli di differenti costumi, di cambiamenti linguistici, numerosi mutamenti dell'uso lessicale, tanti anni di filosofia e c'era anche il nostro Marco Tullio con il suo Laelius.
Ecco come appare la citazione evangelica in una delle prime traduzioni ungheresi (Károli Gaspár, 1590):

Nincsen senkiben nagyobb szeretet annál, mintha valaki életét adja az ő barátaiért

Senza starne ad analizzare puntualmente l'intera grammatica, prendiamo dalla frase le sole due parole che ci interessano: szeretet e barát.
Se con barát, similmente con quanto succede per esempio in inglese, possiamo tanto riferirci ad un comune amico quanto ad un fidanzato (e ció per le ungheresi in Italia puó dare adito a più o meno inconsapevoli fraintendimenti), per quanto riguarda la voce che traduce il nostro amore, l'ungherese non lascia scampo ad equivoci. Esistono infatti due distinte voci, l'una intende “affetto” in senso anche cristiano, szeretet appunto, l'altra invece designa il sentimento passionale amoroso: szerelem. Noi al di qua del Danubio abbiamo coniato ad arte l'artificiosa locuzione volere bene per non creare imbarazzanti incomprensioni. Esiste qui da noi una mastodontica letteratura erotica che trae linfa dall'immortale dicotomia amore vs voler bene, iniziata proprio dai contraddittori comportamenti di quella Lesbia che cogit amare maius sed bene velle minus. Si trattava evidentemente di una passione non proprio edificante per il povero Catullo, che si ritrovò a rasentare la pazzia. E nacque così il grande modello di tutti gli amori disperati della letteratura occidentale. Molto szerelem (e non del tutto corrisposto) e pochissimo szeretet. Chi invece per prova conosce il vero amore, sa bene che esso è forza creatrice e nobilitante, raffina l'animo dell'amante quando questi non ha alcuna mira ad eventuali premi. Dante ed i poeti d'amore lo avevano capito bene, tanto da trovare la beatitudine nella sola lode dell'amata. Spesso le loro strane donne letterarie ricche di caratteristiche più che umane, trovano una prematura morte per il semplice motivo che é narratologicamente funzionale all'evoluzione dell'amante, egli deve necessariamente fare un salto di qualità: rimanerle fedele non potendo ovviamente riceverne alcuna ricompensa.
L'amore ha una fondamentale caratteristica che la lingua ungherese sembra aver intuito. Diamo un'occhiata alla divisione dei morfi delle parole ungheresi dell'amore.

SZER-ET : amare
SZER-ET-ET : affetto, carità
SZER-ELEM : amore

Il mistero dell'amore ungherese si cela nella radice -SZER- e probabilmente non ha una soluzione soddisfacente per gli uomini di scienza abituati a pensare in termini di calcoli di probabilitá. In effetti niente è meno probabile dell'amore: qualcosa che non prevede nulla in cambio, anzi richiede sacrificio di noi stessi ed incrollabile fede, come testimonia l'origine del verbo credere che significa letteralmente “dare il cuore” (vedi: credo > cor+do). Credendo nelle probabilitá, l'amore non dovrebbe affatto esistere. Noi, peró, che abbiamo imparato ad avere fede nel tesoro di parole tramandatoci dagli antenati, crediamo che non esistano parole dette a caso. A volte alcune parole sembrano confonderci proprio come fa un falso amore: SZER-EZ “procurarsi, ottenere”, o SZER-EL “riparare”, perdiamo l'orientamento quando troviamo parole che non ci aspettiamo, che non sembrano avere logica: GYÓGY-SZER “farmaco”, NAGY-SZER-Ű “grandioso”. Ma in fondo si tratta di trovare un segno, un cartello stradale che ci indichi una direzione dove ci sia più luce e l'aria sia più pulita. Crediamo che prima o poi anche le deviazioni dal percorso ci sveleranno un senso. Il mio percorso ha deviato fino alla voce SZER-SZÁM “stampo”. Lo stampo taglia un dato materiale per fare lo stesso prodotto una o più volte insieme a seconda di quante figure dispone. Per non perdersi bisogna ripercorrere mentalmente tutto il cammino fatto una, due volte, tre volte, quattro volte. In ungherese EGY-SZER “una volta”, KÉT-SZER, due volte, tre HÁROM-SZOR,...
La particella -szer/-ször/-szor racchiude al suo interno il concetto di moltiplicazione. Le espressioni matematiche del tipo “2 x 7” si leggono in ungherese KÉT-SZER HÉT, letteralmente “due volte sette”. L'amore agli occhi della lingua magiara è la forza che produce, crea, anzi, moltiplica. Questo è indubbiamente vero se pensiamo alla riproduzione, ma se fosse tutto qui sarebbe piuttosto riduttivo. L'amore, quell'improbabilissimo vero miracolo che avviene tutti i giorni nel cuore di bambini, donne e uomini, moltiplica e si moltiplica. Pensi che amare più di così sia impossibile, che umanamente non ce la puoi fare. Poi diventi genitore.
E l'amore di cui si è capaci miracolosamente si moltiplica con ogni figlio che accogli.

Buon Natale e felice anno nuovo!

domenica 27 settembre 2015

E forse quel che cerco neanche c'è. Puntata nona.

  Quella ungherese è una nazione piccola, non abituata a stare tanto spesso nei notiziari della BBC o della CNN. È strano, o forse emblematico, che da molti giorni questo Paese sia diventato improvvisamente al centro dell'interesse di tutti. Eppure fu qui che, nei secoli passati e soprattutto dopo la caduta di Bisanzio, per tanto a lungo si scontrarono le forze dell'Occidente e dell'Oriente e si arginava l’annoso espansionismo turco. Anche oggi l'Ungheria deve fronteggiare una problematica forse più grande di lei ed è possibile che dal suo comportamento dipenderà molto delle sorti dell'intero continente.
In questa sede ci si propone di parlare soltanto di lingua, con gli scarsi mezzi di cui si dispone, evitando possibilmente di formulare facili giudizi politici sulla complessa situazione attuale, sempre con l'incrollabile certezza che la vera cultura si riconosce nella solidarietà e nella pace, ma prende inevitabilmente le distanze dall'intransigenza del fanatismo e dalla matta arroganza del terrorismo. Non dimenticando le incerte vicissitudini storiche, sfuggenti alla comprensione di noi gente semplice, accanto agli spesso tragici sconvolgimenti migratori di questi tempi, cerco qui di scovare una vita che ancora è scandita dai cicli della natura e dal succedersi delle stagioni, una normalità che poi è spesso alla base di fenomeni linguistici che ci interessano.
szőlő
  Non considerando l'inestinto caldo di quest'anno, normalmente la stagione invecchia presto in Ungheria e chiude i cancelli già il 20 agosto con la festa di Re Santo Stefano I, padre della nazione, quando ci si ritrova sulle rive del grande fiume a congedarsi coi fuochi d'artificio da un'altra estate sfuggitaci di mano. Con l'autunno arriva la gioia matura ed arcaica della vendemmia, e colline e campi delle borvidék sono in fermento. Per noi vendemmiare è proprio “ricavare il vino”, visto che il latino vindemia è separabile in vinum de-emere, ottenendo il succo dall'uvido frutto della vite. La vendemmia ungherese è szüret, che a prima vista non sembra svelarci molto. Se però gli accostiamo il verbo szűr (“filtrare”) oppure szürcsöl (“stillare”) la parola comincia a parlare. La nostra uva è ricca d'acqua (uvidus: “gonfio d'acqua come l'uva”, come ci illustra Servio distinguendolo da umidus: “bagnato superficialmente”), l'uva ungherese (szőlő), invece, rimanda a tonalità cromatiche per una stretta somiglianza, non etimologica, con l'aggettivo biondo: szőkeE non a caso la biondeggiante uva ungherese dà vita ai vini locali più pregiati, come il famoso Tokaji, mentre di solito il Bikavér (“sangue di toro”), rosso secco ottenuto dalla miscela di nove vitigni differenti, anche se molto apprezzato dai magiari, trova pochi consensi tra i palati al di qua delle Alpi. Quando nel nono secolo furono i magiari i protagonisti della grande migrazione che li portò ad occupare il bacino dei Carpazi, si fermarono nella decaduta provincia pannonica e vi trovarono le coltivazioni dei vitigni che i romani avevano portato in queste zone. Tuttavia gli antichi magiari già conoscevano il vino prima della cosiddetta honfoglalás (la “presa della patria”, HON “casa”, “patria” FOGLALÁS “occupazione”), tant'è che la parola ungherese bor (“vino”) ci porta nientemeno che nell’Antica Persia, la patria del famoso vitigno Shiraz e la casa del più antico vino del mondo mai rinvenuto: settemila anni! La parola medio-persiana bōr, pare sia passata attraverso le antiche popolazioni turcofone come gli uiguri, che erano al tempo stanziate nell'Asia centrale in prossimità delle probabili zone d’origine dei magiari. Noi abbiamo a lungo dibattuto sull’origine della parola vino: chi propugnava la tesi indoeuropea, chi invece quella semitica. Noi, sospettosi di imbatterci nel temibile campo delle ideologie, restiamo fuori dalla zuffa etimologica e ci limitiamo a notare la somiglianza del nome del prodotto con quello dell’albero.
  Il vino pannonico deve aver fatto perdere la bussola (iránytű ) ai sette vezér della tradizione: si fermarono con le loro tribù e costruirono qui le loro case. La lingua ungherese, che nei secoli è rimasta pressoché inalterata, ha il potere di rappresentare concetti, cose e persone nelle loro peculiarità. Come per esempio bussola: in italiano è solo una semplice “scatoletta”, in ungherese l’ ”ago (TŰ) della direzione (IRÁNY)” non lascia scampo ad equivoci. Beh, gli ungheresi del nono secolo non avevano di certo la bussola e dovevano per forza orientarsi (IR-ÁNY-UL: “darsi una direzione”) coi modi più naturali che erano alla portata di tutti gli uomini della terra, come l’osservazione del cielo.
  Per noi che siamo al di qua dell’equatore la direzione più importante, l’unica di solito indicata con una freccia nelle cartine geografiche, è il nord. La parola non è certo di casa nostra, come anche sud, est ed ovest, ma si tratta evidentemente di espressioni germaniche che devono la loro fortuna alla loro brevità. In italiano diciamo settentrione, espressione bellissima nata con la scoperta delle costellazioni cirumpolari; le stelle in prossimità del polo nord celeste non tramontano e rimangono sempre sopra l’orizzonte nord: i septem triones, i sette buoi, sono evidentemente le stelle del Carro viste attraverso la fantasia popolare, diventate rassicurante riferimento ed entrate così a far parte del lessico quotidiano. Lascio ora che nuove muse ci dimostrin l’orse e vedo cosa ci dice questa taumaturgica lingua ungherese che, ricordo, identifica giustamente giorno e sole con un’unica parola (nap) perché SONO la stessa cosa. Una delle cose che balzano agli occhi ad uno straniero è che il nord si identifica completamente con la notte; è evidente che il nord sia la parte in cui il sole è eternamente vacante: észak (ÉJ-SZAK, “nord”, lett: “parte della notte”, cfr. anche: éj, éjszaka: “notte”). In effetti i quattro punti cardinali (VILÁG-TÁJ, “zone di luce”, oppure ÉG-TÁJ “zone del cielo”) altro non sono che i quattro momenti della giornata (NAP-SZAK, “parti del giorno” ovvero “posizioni del sole”).
Continuo orientandomi ad oriente, e mi rivolgo a KEL-ET, che è proprio il nostro levante. Come cambia tutto a seconda dei punti di vista: l’Austria che è letteralmete il “regno orientale” (Öster-reich) visto da qui appare un nome insensato, mentre se provate ad annoverare l’Ungheria tra i cosiddetti “Paesi dell’est” vi si risponderà all’austriaca: “Nossignore, noi siamo mitteleuropei’”... Del verbo KEL (“alzarsi”) ne ho parlato un pochino nella puntata seconda. A chi conosce Budapest verrà in mente la stazione ferroviaria est Keleti Pályaudvár, mentre chi va al lago Balaton in treno, parte da Déli Pályaudvár, la stazione sud. Come anche in italiano, il sud si definisce col momento della giornata in cui il sole è alla massima altezza e comincia la sua discesa. Il dél (“sud” e “mezzodì”) è etimologicamente connesso col verbo döl che significa “crollare perpendicolarmente” e quindi “culminare”. Col sud si scandiscono in due le attività della giornata: prima di mezzogiorno sono délelőtti (lett.:“del davanti al culmine”), invece dopo il transito del sole sul meridiano sono attività délutáni (“dopo il culmine”, “post-meridiano”).
Il dramma latino che si scorge nella caduta rovinosa del sole in occidente, in occaso (“cadere contro”), è in ungherese simpaticamente attenuato da nyugat, in cui la radice NYUG- rientra nel lessico della pennichella (vedi: nyugalom “quiete”, nyugszik “calmarsi”, “riposarsi”). Ritorna il tema della caduta nel termine este (“sera”), confronta: ES-IK “cadere”, ES-ET “caso”, “accadimento”.
Non la tiro tanto per le lunghe: vi sarete accorti, miei coraggiosissimi lettori, che il tempo che ho da dedicare alle scabrose avventure non è molto. Il tempo è una cosa misteriosa, difficile da spiegarsi, molto più dello spazio. Per quest’ultimo abbiamo diverse parole che ce lo traducono e ce lo definiscono esaurientemente: hely, in senso di posto, luogo adibito a qualcosa, tér, in senso di superficie bidimensionale ed űr, lo spazio tridimensionale, il cosmo che, come ci insegnano i fisici e gli esperti della materia, è essenzialmente vuoto: üres (“vuoto”, “spazioso”).
Per tempo c’è un’unica e misteriosissima parola. Ma ve ne parlerò un’altra volta.
È tardi, devo dormire, domattina (reggel) dovrò alzarmi presto (rég).
Tanto tempo è passato,(régen volt) dall’ultimo mio post. Buonanotte a tutti voi che ancora mi seguite nonostante i miei rari aggiornamenti!


Sì, giusta obiezione, attento lettore: “presto” si dice korán che però fa parte del lessico del tempo ed ho deciso di parlarne più avanti.
Ci sono motivi per cui preferisco non correggere. Adesso vado, altrimenti davvero finisce che spengo il computer all’ora della colazione (reggeli)... 

domenica 25 gennaio 2015

Non aprite quella porta. Puntata ottava.

John Heinrich Füssli
"The nightmare", 1781
Fuori era la sera gelida di un tardo dicembre ungherese. Dentro avevamo finito di cenare con le abbondanti rimanenze del pranzo di Natale. Fu allora che mio padre mi parlò della ianara.
Succedeva che nel beneventano e nell'avellinese alcune persone, anche molto rispettate ed attendibili, lamentassero la presenza di una maligna entità notturna: si introduceva nelle abitazioni e angustiava il sonno dei malcapitati, provocando loro incubi, visioni angoscianti e malesseri vari. Ma col sorgere del sole essa si dileguava nel nulla. Chi la vide la descrive come una vecchia decrepita di infima statura, ma al contempo agile e pericolosa: la sua presenza portava alla disperazione uomini e donne. Esistevano, tuttavia, dei rimedi per scongiurarla. Uno di questi era posare una scopa dietro l'uscio: la ianara avrebbe avuto l'inesplicabile bisogno di contare una ad una tutte le setole della scopa e non si sarebbe raccapezzata prima dell'alba, quando, con la luce del sole, ella sarebbe svanita prima di arrecare alcun danno agli inquilini.
C'era anche un altro modo, forse adatto ai più coraggiosi, attraverso il quale si poteva non solo renderla innocua, ma la si poteva anche soggiogare e farsela propria serva: la ianara soleva attaccare sedendosi di peso sul petto della vittima dormiente; questi, una volta svegliatosi, doveva avere la prontezza di afferrare la strega all'improvviso ed a quel punto lei avrebbe chiesto:
«Per che mi prendi?», vale a dire con cosa, da che cosa. Bisognava avere sangue freddo ed evitare di dire pe' li cavilli (per i capelli), altrimenti lei avrebbe risposto:
«Ed io me ne scioglio come un'anguilla!» e, magicamente divincolatasi, avrebbe continuato ad molestarci la notte seguente.
C'era una sola risposta giusta da dare:
«Pe' fierr' e acciaj'», vale a dire con ferro ed acciaio: così dicendo la ianara diventava prigioniera e sarebbe stata costretta ad eseguire ogni nostro ordine per poi non fare più ritorno.
Una facile accortezza preventiva, invece, consisterebbe nell'evitare i cibi pesanti la sera: pare che una digestione difficile aumenti sensibilmente il rischio di attacchi della ianara...
Ecco, direbbero alcuni, come la fantasia popolare cerchi di darsi delle spiegazioni di fronte a fenomeni umani come in questo caso il pavor nocturnus, i disturbi del sonno in generale o semplicemente gli incubi.
Qualcuno tra voi lettori già conoscerà il vero significato della parola “incubo”: gli incubi nell'immaginario popolare latino erano delle entità maschili, degli spiritelli, che nottetempo si introducevano nelle case per avere dei rapporti sessuali con le donne durante il sonno. Esistevano anche le succube, versione femminile degli incubi, che invece si occupavano degli uomini dormienti. Ed in effetti entrambe le parole contengono il verbo cubare, che significa “giacere” anche in senso sessuale. Ma i tratti di questi visitatori notturni non sono relegati al solo mondo latino. Basti pensare al significato dell'inglese nightmare che non è la “cavalla della notte” (che deve aver originato l'ambiguità presente nel celebre “Incubo” di Füssli, vedi figura), bensì “folletto notturno”: -mare ha infatti origine nel norreno mara, il nome di uno spirito maligno che siede sul petto degli addormentati provocandogli incubi, da qui la creatura in tedesco detta Nachtmahr. Questi folletti malvagi sono sorprendentemente presenti anche in quasi tutto il mondo slavo (come ad esempio il croato mora) e conservano intatte le stesse caratteristiche di incubi e succube.
In ungherese l'incubo inteso come “brutto sogno” risponde alla voce rémálom, parola composta da rém ed álom. Cominciamo dalla seconda parola, ÁL-OM, che da sola significa “sogno” e che fa parte dello stesso campo semantico di AL-SZIK (dormire) e ALV-ÁS (l'atto del dormire). Tutte queste parole rimandano alla particella AL che indica un giù, uno stare sotto, (vedere le voci alatt, alul, alá) che, se applicato al tema del sonno, mi fa pensare, oltre all'atto fisico del coricarsi, di stare giù, anche alla latenza della personalità che si cela sotto la momentanea interruzione delle interazioni col mondo esterno. Mi metto a sognare e mi piace pensare che forse anche il nostro sonno ed il latino somnium nascondano al loro interno lo stesso concetto: la preposizione sub (SUB+NIUM), con la labiale presente in quasi tutte le varianti indoeuropee (provenzale sopnis, lituano sapnas, antico slavo supati) come anche in greco: ὓπνος dove ὑπο è proprio “sotto”. La prima parte di rémálom, l'incubo ungherese, è questo RÉM, presente in molte espressioni interessanti come rémisztő “orrendo”, rémület “panico”, rémkép “spettro”, “apparizione spettrale”. Il significato di base sembra quello della paura, per cui rémálom dovrebbe banalmente essere “sogno pauroso”, ma la cosa mi lascia un po' deluso, non mi convince. Mi sforzo, cerco nella mia testa qualche espressione che mi possa mettere su una strada piú avventurosa, ma niente: non mi viene in mente niente.
In questi casi, quando si fa uno sforzo nella memoria che però non produce i risultati sperati, gli ungheresi usano l'espressione nem rémlik e cioè letteralmente “non mi pare”, “non mi sembra”: pertanto il RÉM sembra originariamente legato alla manifestazione di una presenza latente e solo successivamente alla paura che essa può suscitare.
Qui le cose da dire in proposito sarebbero terminate, se non mi fossi casualmente imbattuto nella traduzione ungherese di una nota poesia della letteratura tedesca. Di certo saprete che il massimo poeta tedesco Wolfgang Goethe aveva una grande passione per la poesia popolare e scrisse quella tremenda ballata intitolata Erlkönig, in cui il “re degli elfi” paurosamente appare ad un bambino malato durante la sua fatale cavalcata alla ricerca di un dottore. Ebbene, la traduzione ungherese del brano goethiano Re degli elfi è proprio Rémkirály (király: “re”): se l'elfo malvagio è per gli ungheresi rém, allora siamo fortemente tentati di scorgere nel tedesco Albtraum (“incubo”, ma letteralmente “sogno di elfo”) il punto di riferimento per la formazione del rémálom ungherese.
Ma vorrei tornare ancora per un attimo alla nostra malefica elfa sannita, la ianara: viene da chiedere cosa abbia di particolare rispetto ai suoi simili europei. In altre parole: che cos'è veramente la ianara? Alla luce dei pochi elementi di cui dispongo, l'idea è quella della sopravvivenza attraverso i secoli di un antico genio dei passaggi, delle porte che mettono in collegamento un fuori con un dentro, la casa col mondo esterno, e, volendo, anche l'individuo col suo inconscio. Se la scopa dietro la porta pare un indizio troppo debole, cos'altro sarebbero il ferro e l'acciaio della formula, se non i cardini ed i chiavistelli che assicurano la porta all'uscio? Il nome stesso della ianara troverebbe derivazione nella voce latina ianua, che oggi sopravvive solo nei nomi Giano (il dio bifronte della porta), Gennaio (la porta del nuovo anno) e Gennaro (solitamente porta Esposito di cognome...), ma già in antico comunemente rimpiazzata da porta, che sembra essere il participio di un perduto verbo poro*, suffragato della voce greca ποράω (“attraversare”), sanscrita piparmi (“condurre, portare”) e tedesca fahren. La stessa parola italiana portare potrebbe essere un frequentativo (verbo formato sulla base del participio passato, come ad esempio cano, cantum > cantare oppure premo, pressum > pressare) del sopradetto poro*, quindi portare poteva originariamente significare “mandare attraverso la porta”
Così, prima di finire, dedichiamo un ultimo pensiero alla porta ungherese ajtó, piccola ma ben articolata:

AJ*: antica voce verbale ugrica, “liberarsi”, “passare”
AJ-T*: “liberare”, “far passare” (per il valore di -T- vedi puntata seconda)
AJ-T-Ó: “che libera”, “che fa passare” e dunque “porta” (per il valore di -Ó/-Ő vedi puntata terza)

Proprio come la nostra porta, anche ajtó cela un antico verbo ormai rimosso, ma che sopravvive nei frammenti archeologici incastonati nella lingua ungherese moderna, come ad esempio lejtő (“discesa”, “piano inclinato”: LE-EJ-T-Ő) o felejt (“dimenticare”: FEL-EJ-T), in cui -EJ- é la versione “bassa” di -AJ- e LE e FEL sono rispettivamente “giú” e “su”.


Per stasera direi di chiudere, buonanotte e szép álmokat!

lunedì 1 settembre 2014

Questione di misure. Puntata settima.

La prendo alla lontana e per parlare di argomenti magiari traggo spunto da una divagazione occorsa nel vasto mare delle nostre origini su una navicella elegante, sapientemente assemblata con legno italico, etrusco e greco: la poesia del massimo autore della latinità Publio Virgilio Marone.
In chiusura di poema, troviamo nelle Georgiche l’unico passo di tutta la produzione virgiliana in cui l’autore rivela il proprio nome: Vergilium me (Georg. IV, 563). Una firma, l’unica firma di Virgilio: neanche l’Eneide può pregiarsi di tanta considerazione da parte del poeta. Un motivo in più per ritenere che i quattro libri delle Georgiche siano altro che un raffinato manuale del buon contadino. Si è parlato di pessimismo virgiliano, l’uomo e l’ineluttabile suo destino di sofferenza, si è scritto del tono religioso o, se si preferisce, iniziatico del libro quarto, quello dedicato all’apicoltura e molto altro ancora. Poco, invece, si trova sulle ricorrenze numeriche di certe parole all’interno dell’opera. Mi riferisco, ad esempio, al fatto che per qualche motivo la parola Maecenas curiosamente occorra solo ai versi 2 - 41 - 41 - 2 in figura di chiasmo nel corso dei quattro volumi. Un dato che, è vero, in sé non dice tanto, ma che allo stesso tempo lascia poco spazio alla casualità: di sicuro Virgilio era uno che le parole non le inseriva nel testo in modo casuale. A quanto ne so, siamo in pochi ad aver notato queste occorrenze, fa parte della compagnia anche il più grande ammiratore di Virgilio, Dante, il quale con fare sibillino afferma che la grande poesia lega numero con rima (Convivio, I, 13, 6). Beh, oltre non dico, ma non perché tacere è bello, ma solo per timore di dare informazioni errate su una materia per me ancora incerta ancorché molto affascinante.
Mi trovavo così un bel mattino a ripercorrere un brano virgiliano contenuto nel primo libro delle Georgiche denominato dal curatore della mia edizione „l’almanacco del contadino”, e mi accorsi che la parola mondo viene usata in modo inusuale, anzi, inaspettato, almeno per chi si è perso la puntata quinta di questo blog. Non è così pacifico che la fascia zodiacale sia detta „del mondo” (I, v. 231), semmai „del cielo”, né si può tanto soprassedere ad un „globo che verso la Scizia sale dritto per poi abbassarsi declinando verso la Libia” (v. 241 e seguenti) che, così come tradotto dal curatore, riesco difficilmente a figurarmi. Sembrano affermazioni prive di senso, goffe, che presuppongono la misconoscenza o una certa incapacità di Virgilio. A meno che non restituiamo alla parola mondo il suo significato originario connesso alla rotazione terrestre giornaliera: l’asse polare. In tal caso, l’intero passo si rivela pregno di significato e preciso in modo direi scientifico: è la presentazione delle conseguenze visuali della volta celeste con lo spostarsi dell’osservatore da una latitudine polare (la Scizia) ad una equatoriale (a sud della Libia). Il primo osservatore vedrà un mondo arduo, vedrà cioè l’asse polare che si staglia perpendicolare all’orizzonte, il secondo osservatore invece lo vedrà premere sull’orizzonte quasi fosse schiacciato. Chiudo qui questo contributo fuori sede dato alla puntata quinta (Non si è fermato mai un momento). Lo spunto di collegamento con l’ungherese, invece, mi venne al verso 231, con l’espressione certis dimensum partibus orbem tradotta in „orbita divisa in ben determinate sezioni”. Tale traduzione vuole venire in soccorso del lettore non addetto ai lavori; noi, però, non possiamo dimenticare il campo semantico di dimensum, che è quello di misura. Dimensione è ciò che si può misurare, definire. Nel nostro caso si tratta del participio del verbo dimetior (misurare) e riferisce alle misure angolari che determinano le cinque zone climatiche del pianeta. La vastità che sfugge all’umana comprensione è invece non misurabile, è IN-MENS-A, incommensurabile.
La mensura, il metro greco, il modus latino, il messen tedesco trovano un’imprevista somiglianza fonetica col lontanissimo ungherese MÉR: quanto meno curiosa è la costante presenza della labionasale, che mi lascia sognare un raffronto con l’accusativo del pronome di prima persona singolare (me, με, mich, engemet), come a dire: l’uomo è misura di tutte le cose, Mench und Menge, ed io stesso sono la prima unità di misura che posso utilizzare per figurarmi ciò che mi circonda.
Da MÉR si formano molte parole interessanti, prime tra tutte MÉR-ET, la quantità misurata, e MÉR-TÉK, l’unità di misura.
Altrettanto interessanti sono mérnök e mértan: l’ingegnere è l’uomo delle misure, laddove la particella -NÖK/-NOK indica una persona che sa gestire qualcosa, come ad esempio il generale (mil.) è l’uomo che dirige l’accampamento TÁBOR-NOK, oppure l’agente (comm.) è l’uomo degli affari ÜGY-NÖK; il morfo -TAN- indica lo studio o la presa di coscenza di qualcosa (TAN-UL, studiare, prendere coscenza, TAN-ÍT, insegnare, TAN-Ú, il testimone, ed infiniti altri casi) e con esso si forma lo studio delle misure MÉR-TAN, che è sicuramente più esatto della nostra geometria, la quale dice di essere le misure della terra, ma in realtà è uno studio astratto di casi meramente teorici.
Se in italiano è chiarissimo che bilancia è bi-lance, cioè doppio piatto, il termine ungherese mérleg ha qualcosa di enigmatico nel secondo morfo -LEG, che, stando al mio dizionario, è utilizzato in modo errato. È vero: di solito assume valore avverbiale (fizikailag, esetleg, anyagilag, elvileg,…), ma è altrettanto vero che mérleg non è l’unico esempio di sostantivo con tale suffisso: átlag ed egyenleg sono anch’essi sostantivi ed hanno curiosamente significati in qualche modo legati alle misure: media (mat.) e somma, ammontare di un credito. Pare che questi nomi in -leg/-lag siano comparsi dopo la sistematizzazione della lingua ungherese (la cosiddetta Nyelvújítás) avvenuta alla fine del Settecento per opera dei grandi letterati magiari dell’epoca sotto la guida di Ferenc Kazinczy. Non è che prima si pesasse solo a mano: bilancia si diceva mérettyű (lett.: „dispositivo misuratore”) oppure mércső („tubo-misura”), ma poi tali parole furono sottoposte ad un processo di pulizia linguistica del tutto intenzionale. Forse questo -leg se lo sono inventato di sana pianta, ma stento a crederlo. Forse su questa scelta ha influito la formazione del superlativo, che ha bisogno appunto del -leg-, e, si sa, comparativi e superlativi si basano sul confronto, sulle differenze,… Bah, lasciamola stare ’sta bilancia, che è appena ricominciato il campionato di calcio e non voglio perdermi alcun MÉR-KŐZ-ÉS, vale a dire partita, l’evento sportivo in cui due squadre oseranno misurarsi con grande agonismo. Attenzione a non confondere MÉR con MER. L’uno misura, l’altro osa. E chi osa, lo fa sempre avendo misurato i rischi e gli eventuali benefici, altrimenti non sarebbe coraggio, ma sciocca imprudenza.
L’origine di questo MÉR pare sia ignota. Personalmente mi piace pensarlo come una risposta, la risposta numerica alla puntuale domanda Mit ÉR? „quanto vale?” Su ÉR vedere puntata precedente.
La nostra misura, invece, quella al di qua del Danubio, è la misura che si usava per tenere conto del tempo che scorre, e, come dice il saggio, il tempo è il numero del movimento secondo il prima e secondo il poi degli eventi che hanno luogo nella volta celeste: il sole e soprattutto la luna. E infatti dentro mensura c’é mensis il mese latino, originariamente lunare, la più antica e più sacra unità di misura del tempo, quella che per gli antichi era la radice dei cicli della vita e della riproduzione. Se parrà arduo legare in italiano luna a mese, sarà scontato in tedesco legare Mond a Monate, a moon il month inglese, a μήνη il μήν greco, e, dato che vi risparmio l’inflazionatissimo esempio di mens-truazioni, lascio un posticino in questa educata compagnia lunare allo sboccato mona.
Come è noto, ci sono differenti tipi di mese lunare. I due tipi più importanti sono quello detto sinodico, di 29 giorni e mezzo, che si basa sul movimento della luna rispetto al sole (le fasi lunari) e quello siderale, di circa 27 giorni e sette ore, che si basa, invece, sul movimento della luna rispetto alle stelle.
L’antico mese ungherese è indubbiamente il mese lunare sinodico: la definizione di esso è contenuta nello stesso vocabolo: hónap, dove HÓ è luna e NAP è sole.
Signori, io una spiegazione migliore al concetto di mese lunare sinodico non la saprei trovare: la parola ungherese contiene tutto ciò che c’è da sapere. Dire mese non è esaustivo, dire lunazione non basta: c’è bisogno anche del sole, perché 29,5 giorni ci vogliono perché la luna da un allineamento col sole ritorni al prossimo allineamento. Aggiungo anche che NAP significa tanto sole quanto giorno, ed a buon vedere le due cose non sono separabili. A buonissimo vedere, abitando sulla luna un giorno corrisponderebbe esattamente al nostro mese lunare sinodico, un HÓ-NAP, un giorno lunare… (!!!!!)
Sono allibito.

Così farneticando oso dunque dire che l’archetipo linguistico del concetto di misura è la luna. E allora cosa succederebbe se per un attimo immaginassimo che quel Vergilium me al verso 563 di Georg. IV indicasse proprio una misura lunare? Scopriremmo che 563 mesi lunari siderali sono quasi 42 anni, proprio l’età di Virgilio nel 28 a.C., quando, secondo storici e filologi, finì di comporre le Georgiche: infatti, come è noto, il poeta nacque sub Iulio ancor che fosse tardi nel 70 a.C.
Avrete senz’altro riconosciuto la citazione dantesca: Inferno, canto primo, verso…  Il numero del verso non lo ricordo, andate a controllare.


Buona giornata a voi tutti che avete la pazienza di leggere. 

domenica 6 aprile 2014

Cenabis bene apud me. Puntata sesta.

Dopo il delirio della puntata precedente, ho pensato fosse bene lasciar passare un po’ di tempo prima di piazzare un’altra bomba mediatica di simile portata.
In poche parole: la realtà (valóság) ha bisogno di essere elaborata e digerita, altrimenti la materia (anyag) può essere causa (ok) di qualche incidente (baleset) anche alla mente (ész) più elastica ed intelligente (okos). È giusto (igaz): ci vuole del tempo per costruire (épít) una più chiara (világos) e migliore (jobb) visione del mondo (világ) maturata alla luce (világosság) delle nuove scoperte. Pensiamo che solo da un salutare (egészséges) dubbio (kétség) possa nascere (születik) il vero (igazi) sapere (tudás).
Sì (igen), non vi arrabbiate, lo ammetto: del dubbio non ho ancora parlato, avete ragione. Vi dico solo che se uno è buono, due sarà cattivo, infatti sia in italiano (DUE) che in ungherese (KÉT) il secondo numero intero è la radice del dubbio. Ma non facciamo del dubbio una tragedia greca: come ci insegnano proprio i nostri prozii ellenici, la crisi è solo un primo stadio nel processo di maturazione della scelta (come è noto crisi viene da κρίνω: „scegliere, discernere”). Di sicuro alcuni di voi lettori saranno caduti nel dubbio: concedere ancora del tempo ai farneticanti raccapricci di questo blog?
Soppesate, ponderate, pensate, valutate. Cosa c’è sull’altro piatto della bilancia? L’adescamento su facebook dell’antica compagna di classe? L’invito a visionare la new entry della collezione di farfalle della modella ninfomane del piano di sopra?
Tenetevi forte, voi che delle farfalle non ve ne importa più di tanto: sto per iniziarvi all’eccitante e torbida forma mentale dell’Armonia Vocalica…
Avete scelto il blog, vero? Ricchioni. No, che avete capito, nel senso di „fatevi tutt’orecchi” per sentire quanto sto per dire, proprio come nel celebre carme in cui Catullo dice al suo convitato di „farsi nasone”, cioè „tutto naso” per gustare meglio la fragranza di un certo unguento… Ma che vi è saltato in mente, non sia mai! Lungi da qui le volgarità!
E infatti l’armonia vocalica è un fenomeno della lingua ungherese che, come vedremo, aiuta l’orecchio a discernere meglio le parole l’una dall’altra.
Ma andiamo per ordine: le vocali ungheresi sono tante, milioni di milioni. Dalla sinistra alla destra della tastiera:

Ö Ü Ó E U I O Ő Ú A É Á Ű Í

Questa babilonia vocalica la possiamo dividere, un po’ sommariamente, in vocali alte, cioè pronunciate vicino al palato:

Ö Ü E I (brevi)
Ő Ű É Í (lunghe)

e basse, cioè pronunciate vicino alla gola:

A O U (brevi)
Á Ó Ú (lunghe)

Spesso le parole ungheresi contengono vocali o solo alte o solo basse. Ad esempio l’impronunciabile parola „indimenticabilmente”: felejthetetlenül come si vede contiene solo vocali alte; o come l’altrettanto proibitiva parola „invisibilmente” che contiene solo quelle basse: láthatatlanul. Ed in questo modo, parlando, si hanno più possibilità di separare in modo corretto le parole degli enunciati che sovente sono detti velocemente.
Direte: «Riuscire a separare le parole non è mica tutto questo gran traguardo!»
Ma scherziamo?! Questa è una tappa obbligata se vogliamo capirci qualcosa! E poi provateci voi a separare le parole in una lingua che ha 14 (scritto: quattordici) vocali!
Dato che stiamo parlando di una lingua agglutinante, che, per definizione, funziona solo per aggiunta, quasi ogni singolo pezzettino avrà una versione con vocali alte ed una versione con vocali basse da armonizzare con la parola a cui si agglutina. Un paio di esempi:

-NAK/-NEK (di solito complemento di termine):
BARÁT-NAK              „all’amico”
ÜGYVÉD-NEK           „all’avvocato”

-NÁL/-NÉL (stato in luogo)
ÁLLOMÁS-NÁL         „presso la fermata”
ÉPÜLET-NÉL              „presso l’edificio”

A questo punto si ripropone il bivio di Ercole: o avete improvvisamente capito quanto fascino esercitino su di voi i lepidotteri oppure la cosa vi comincia ad intrigare.
A chi propende per la seconda possibilità lancio la scabrosa provocazione: solo questione di comprensione oppure l’armonia cela anche un qualche recondito significato?
Ebbene sì. Il significato c’è.
Prendiamo in esame i dimostrativi:

„Questo”: EZ               „Quello”: AZ

Ah, interessante! Questo con vocale alta, quello con vocale bassa. Lì per lì pensi sia un caso, poi però non trovi il telefonino ultrapiattissimo, lo cerchi, chiedi a qualcuno: «Ott van?» („È lì?”) e ti rispondono «Igen, itt van!», sì, è qui, vieni a prenderlo! Ah ecco:

„Qui”: ITT                               „Lì”: OTT

E così ti vengono in mente anche altre cose, tipo:

„Da qui”: INNEN                     „Da lì”: ONNAN
„Verso qui”: IDE                      „Verso lì”: ODA
„In questo modo”: ÍGY             „In quel modo”: ÚGY
„Tanto così”: ENNYIRE           „Tanto in quel modo lì”: ANNYIRA

È evidente che le vocali alte portano in nuce il significato di vicinanza, mentre quelle basse di lontananza. Che geniale stratagemma che ha escogitato la lingua dei Magiari! Da una vocale si riesce a capire se il referente è vicino o lontano rispetto a chi parla. Beh, però questa cosa vale solo per le parti del discorso pronominali, mi dicevo: mica può estendersi anche a verbi e sostantivi, va’ là!
Tanta era la sicumera prima di imbattermi nel mito di ÉR.
No, non voglio parlare di metempsicosi etimologica, anche se mi sembra che certe parole vengano dimenticate e poi tornino a nuova vita reincarnandosi in altri significati, in altre lingue.
ÉR è una parola fantastica, un pezzo archeologico che ha resistito agli attacchi della latinizzazione, dei tedeschi, dei turchi, dei russi e dei blue jeans, è soprattutto un verbo ed è la radice di tantissime ed altrettanto fantastiche parole di ogni tipo: è tutto questo, nonché la versione dalle vocali alte della parola ÁR.
Generalmente ÉR indica un flusso, uno scorrere in avvicinamento. Se funge da sostantivo significa „ruscello”, ma anche „vena”, i vasi sanguigni, lo scorrimento a noi più vicino, anzi, interno! Abbiamo accennato alla radice di essere in -V-, perciò V-ÉR è l’essere che scorre, il sangue. Da ÉR si genera l’arrivo, il raggiungimento: oda érsz? „ci arrivi lì?”. EL-ÉR: „raggiungere qualcosa”. ÉR-KEZ-ÉS è la parola che dobbiamo seguire se vogliamo andare a prendere qualcuno in stazione o in aeroporto. Commovente è il verbo ért che significa „capire”. E cosa c’entra capire? Se non ci arrivate ve lo dico io: „io capisco” in magiaro sembra essere un passato:

értem: ÉR („arrivare”, „raggiungere”) - T (segno del passato) - EM („io”)

Se capisco è perché ho raggiunto la comprensione, insomma: ce n’ho messo di tempo, però alla fine ci sono arrivato! Del resto non è un caso isolato che un passato prenda significato presente, basti pensare ai difettivi del latino come odi, memini, o al greco οἷδα: „ho visto” e dunque „so”.
Il flusso in allontanamento ÁR genera ÁR-AM: „corrente” anche intesa come elettricità, ma anche ÁR-AM-LAT, la corrente di un fiume o quella del vento che si porta via gli aquiloni. Lo scorso giugno l’Ungheria ha passato alcuni giorni in stato di calamità naturale per la piena del Danubio che in alcune zone si è trasformata purtroppo in vera e propria alluvione, un disastro, sui giornali si parlava di ÁR-VÍZ dove víz significa „acqua”. Non posso tacere, a proposito dell’alluvione del 2013, il senso di responsabilità che hanno mostrato gli ungheresi e la lezione di civiltà che ho ricevuto in quei giorni. Ho visto uomini, donne, ragazzi, pensionati, addirittura persone diversamente abili lavorare insieme alla febbrile costruzione degli argini temporanei. Erano tutti lì ad aiutare, hanno lavorato senza sosta per tre giorni e due notti ed hanno salvato le case a ridosso del fiume. Non si sono sentiti atti di sciacallaggio di sorta.
La civiltà è un bene che non ha prezzo.

Il prezzo è il flusso di valore (ÉR-TÉK) in uscita per ottenere un valore di altro tipo. In ungherese si dice ÁR.
E ci sono cose, come una vecchia amicizia, che valgono oro („egy régi barát aranyat ér”). Il verbo ér esprime dunque il valore in entrata.
Altre espressioni collegate:
megéri („conviene”), érdemel („meritare”), -érett o comunemente -ért (complemento di fine), érett („maturo”), érettségi („esame di maturità”), értékel („valutare”).

Bon, visto che ormai ho preso confidenza con certe potenzialità del blog, vi lascio una canzoncina ungherese con cui provare a distinguere le parole. Volendo si può seguire il testo nel video. Allora fatevi tutt’orecchi, tutt’occhi e anche tutto naso, dato che il titolo del brano è „Profumo”!
(Kedves Iwett117, köszönöm szépen, hogy felraktad ezt a videót a net-re! Remélem, hogy nem baj, ha ide raktam én is!)



Ciao a tutti, grazie della pazienza e alla prossima!

lunedì 17 marzo 2014

Non si è fermato mai un momento. Puntata quinta.

figura 1: mondare un orbe
Miei cari lettori. Fatemelo dire, fatemi usare questo plurale. Siete diventati inaspettatamente numerosi, non riesco a capacitarmi. Ma che è già finito il campionato di calcio? Hanno interrotto Való Világ?
Beh, se proprio non c’è niente di meglio da fare, vogliate rimanere con me, qui, ad interrogarci contemplando l’ingarbugliata matassa di fili, parole e storie che percorrono spazi e tempi e giungono fino a noi. Come i segnali di luce del cosmo che dagli abissi spaziali ci arrivano proveniendo da stelle magari già estinte, tali, direbbe un certo linguista, sono le parole: superstiti bagliori di mondi perduti. E noi che le usiamo quotidianamente ci facciamo portatori di quelle storie arcaiche fatte della cura, dello stupore, delle paure, delle scoperte dei nostri padri. Le parole, infatti, sono il frutto del ciclopico lavoro di ordinazione di suoni e cose, del tempo eroico della sistematizzazione di segni e significati (attenzione, in ungherese antenato ed eroe sono quasi la stessa parola: ős, hős ! Una romantica conferma della grandezza dei progenitori inventori del linguaggio).
Significare, fare il segno, equivale ad evocare alcune realtà nell’immediato non disponibili. Quando emettiamo un segno linguistico come, che so, la parola „elefante”, rendiamo presente nell’immaginazione nostra e dell’interlocutore l’imponente mammifero proboscidato. Dato che per fortuna non basta pronunciare tale parola per farcelo materializzare addosso con tutto il suo peso, si può dire che parlando evochiamo delle realtà che in quel momento non sono presenti.
Seguiamo l’agglutinazione della parola ungherese jelentés:

JEL:                 „segno”
JEL-EN:           „presente” in quanto dà segno di presenza (lett.: „sul segno”)
JEL-EN-T:       „significare” perché rende presente (per il valore di -T cfr. puntata seconda)
JEL-EN-T-ÉS   la cosa resa presente, il „significato”.

Parola e significato viaggiano nel tempo e nello spazio e mettono in contatto mondi che si trovano altrove (MÁS-HOL) ed in altre epoche (MÁS-KOR). Oggi, che cercherò di confrontare il nostro mondo con il világ ungherese, dovrò immaginarmi che tipo di realtà gli antichi volevano evocare quando usavano tale espressione; quindi ora più che mai occorre tenere a mente che la struttura del mondo arcaico è in qualche modo sia spaziale che temporale, il dove-hol è mitologicamente anche un quando-kor e ciò sfugge alla comprensione di noi uomini moderni abituati a pensare attraverso l’asse cartesiano di una scienza che si preoccupa di evitare qualsiasi costruzione escatologica o trascendente. Ovviamente esistono, e sono tanti, quegli scienziati che ammettono il trascendente, ma mi sembra che nell’idea comune della gente oggi questo accostamento sia contraddittorio.
Quando diciamo „mondo”, quasi sempre ci riferiamo ad un’enorme palla girevole blu, marrone e bianca dotata di atmosfera e sappiamo che in qualche modo tale palla ci ospita tutti, uomini, bestie e stelle marine. Da bambino lo tenevo sulla scrivania: un mappamondo, che, come dice la parola stessa, è la mappatura del mondo, ergo il mondo è questo. Ma non sempre è stato così, quanto meno non nel pensiero antico; perciò, per arrivare al mondo originario, bisognerebbe sbucciare il lemma di tutti quegli strati di significato accumulatisi con il graduale sviluppo del sapere scientifico.
Un esempio facile è la parola „galassia”. Al giorno d’oggi una galassia è esclusivamente un grande insieme di soli legati da un sistema di gravitazione, ce ne presenta a dozzine il telescopio spaziale Hubble attraverso le stupefacenti istantanee che riesce a scattare: galassie a spirale, a spirale-barrate, irregolari e via dicendo. Sollevando la buccia temporale piú esterna, scopriamo che una volta la parola galassia aveva solo la forma singolare e pertanto indicava l’unica galassia conosciuta, ovvero la nostra, con tutte le stelle visibili da Terra ad occhio nudo. Togliamo un altro strato ed appare la galassia vista con gli occhi degli antichi, vale a dire la lattiginosa striscia di cielo che taglia di traverso i due emisferi: la via lattea, che oggi a causa dell’insensato abuso dell’illuminazione nei centri abitati è, ahimè, ridotta solo ad un vago racconto degli esperti. Il progresso ci ha inconsapevolmente fatto dimenticare che il nome di quelle remotissime e sconfinate città di stelle è lo stesso che gli antichi hanno scelto per indicare il primo nutrimento che riceviamo in questa vita: γάλαξ, „latte”, c’è forse qualcosa di più intimo? La storia si diverte a giocare coi significati e crea le sue callidae iuncturae semantiche, accostamenti che si rivelano vertiginosamente poetici.
Temo che con mondo le cose siano più complesse. Cosa significava, cosa rap-PRESENT-ava la parola „mondo”? Sfatiamo un falso mito, quello del mondo piatto. Temo che nessuno anticamente abbia mai pensato seriamente che il mondo fosse piatto. Vado a memoria: Ovidio parla chiaramente di globo e lo fa senza troppi proclami (Metamorfosi, I), come fosse cosa risaputa; già Platone secoli addietro nel Fedone fa parlare un morente Socrate del mondo come un orbe variopinto suddiviso in dodoci zone. A proposito: il pianeta non è piano, ma errante (dal verbo greco πλανάω, che significa „errare”, „vagabondare”) e tale anche l’ungherese BOLYG-Ó, da intendere „errante”, si vedano in proposito le espressioni bolyong „gironzolare”, bolygat a múltat „rimestare nel passato” e soprattutto l’operistico olandese volante bolygó hollandi. Gli uomini arcaici, anche proveniendo da culture tra loro molto lontane, si capiscono al volo: infatti sia per noi che per i magiari i pianeti sono gli astri vagabondi, quelli che si spostano a loro piacimento rispetto alle altre stelle che invece sono fisse.
figura 2
Correggetemi se sbaglio: più che un’antica concezione documentata, la piattezza del mondo mi sembra sia piuttosto un’invenzione moderna dovuta alla nostra difficoltà a figurarci gli antichi capaci di pensare in modo complesso, forse solo perché sprovvisti di una terminologia scientifica. È invece verosimile che l’antico mondo fosse l’unità di cielo e terra, l’intero creato concepito come un’unica entità sferica. Sebbene lo abbiano esaminato smembrandolo in parti e particole, gli uomini moderni hanno tuttavia deciso di chiamarlo universo perché mondo ormai appariva un poco equivoco o addirittura insensato, soprattutto quando si scoprì che lo spazio è profondo e che il cielo non esiste se non dalla Terra.
Quando una notizia si diffonde ovunque tra la gente, arriva ai quattro angoli del mondo, il che, alla luce di quanto detto in precedenza, potrebbe sembrare contraddittorio: come trovare gli angoli in una struttura sferica? Per sciogliere la difficoltà è necessaria qualche nozione di meccanica celeste e poi considerare una rappresentazione profondamente arcaica come quella postata qui poco sopra (figura 2).
Molte sono le interpretazioni iconografiche che si danno alle quattro figure messe agli angoli. In chiave cristiana c’è la portata universale del messaggio evangelico, ci direbbero alla prima lezione di storia dell’arte; però la questione è il senso di uno schema che già esisteva nella notte dei tempi, un’immagine che ritroviamo ad esempio nel libro di Ezechiele durante la visione del carro di Dio. Ebbene, non si tratta semplicemente dei quattro punti cardinali, o dei quattro elementi classici, come di solito ci viene spiegato - passatemelo - forse un po’ sommariamente. Questo è un codice iconografico molto tecnico che conferma il mondo concepito come unità di cielo e terra: le due intersezioni sulla volta celeste tra i circoli dell’equatore e dell’eclittica determinano ortogonalmente quattro punti, equinoziali e solstiziali, che periodicamente vanno ad occupare le costellazioni zodiacali a cui si riferiscono le quattro figure. È evidente che tale concezione non sia prettamente spaziale, ma, come si diceva più in alto, è fortissimo anche l’elemento temporale: i quattro angoli del mondo, detti anche pilastri della terra, sarebbero contemporaneamente l’ovunque ed il sempre che per l’uomo antico erano i segni inequivocabili della trascendenza.
Perdonatemi questo complicato excursus sui massimi sistemi, me lo sono concesso solo perché da quella carta da gioco, il tarocco linkato qui sopra, viene l’indizio che ci serve per togliere l’ultima buccia (è proprio il caso di dirlo) del mondo. Alcuni sapranno che tale carta è anche nota come la ruota della fortuna. Ebbene, la ruota ha un’unica prerogativa: girare. E di fatto quando cogliamo un succulento orbe dal ramo del melo e prima di addentarlo lo mondiamo, altro non facciamo che ruotarlo contro una lama. È molto plausibile una dipendeza di mondo con la radice sanscrita manth che significa „frullare, girare, divellere”. Il cielo è un manto di stelle, non tanto perché ci ricopre, ma perché gira! E che fascino che esercita la voce pramantha, il bastoncino usato per accendere il fuoco (Adalbert Kuhn), che, come ci insegnano le giovani marmotte, va sfregato facendolo ruotare. Non sarà tanto casuale che il previdente Prometeo, detto anche promantheùs, sia il ladro del fuoco (De Santillana). Un caso interessantissimo è il greco μανθάνω che classicamente significa imparare e che non si riesce a capire esattamente cosa caspita c’entri con la rotazione. Però chi ha letto Platone sa che l’anima, che è immortale, può accedere alle realtà eterne attraverso il suo peculiare movimento perpetuo e non generato e cioè la rotazione (Repubblica e Fedro).
Ancora sul mondo: in tedesco Welt, da wellan „girare”, confronta proprio il latino in vellere, volvere, l’italiana volta celeste.
Il mondo per la nostra cultura è l’immane armatura rotante che condensa ogni dimensione, lo spazio, il tempo e tutto ciò che è all’interno di esso. La nostra lingua ha scelto di nominarlo attraverso una delle sue caratteristiche, la rotazione: il mondo è la cosa rotante.
L’ungherese, lingua che pare autodefinirsi, risolve il problema del mondo in termini molto più semplici e precisi. Il mondo è semplicemente luce.
L’esistenza è luce, emessa o riflessa non importa, l’essere e la luce sono legate a doppio filo nella parola világ „mondo”, e tutto ciò che appartiene al mondo, a rigor di grammatica, dovrebbe essere VILÁG-OS, tuttavia világos non significa „del mondo”, bensì „chiaro, luminoso”. Interessante è come nei punti di contatto col nostro occidente, come ad esempio in ambito religioso, si formino delle curiose traduzioni di certe formule come ad esempio a világ világossága, la luce del mondo, che in ungherese suona evidentemente ripetitivo.
Nell’espressione idiomatica való világ, che significa „la realtà” riconosciamo il participio -Ó/-Ő della radice di essere VAL- che è senz’altro una variante del VIL- di luce, anzi, a conferma di ciò il cugino dell’ungherese, il finlandese, dice valo intendendo proprio luce! Beh, oggi való világ è soprattutto il nome del big brother ungherese, la cui profondità intellettuale è fuori dalla mia portata, perciò lascerò ad altri l’impresa di parlare di itt a lét a tét („qui è in gioco la sopravvivenza” il motto del celebre reality televisivo); per altri, invece, è la luce che esiste, definizione ungeherese di mondo.
A casa mia non si vede molta TV, in compenso si gioca molto a carte.
Ci sono passatempi che hanno il pregio di tenere allenate le capacità di strategia, di calcolo e di memoria, proprio come quel concentrato di sapienza arcaica che è il gioco della scopa.
«Paro, paro, tutto il mondo è paro»
Quante volte avrò sentito papà e nonno tenere a mente questa regola così importante per gli esiti della partita! E qui, i sognatori come noi, amano sentire la voce degli antenati che affidano il loro messaggio morale e cosmologico ad un momento di intimità familiare, quando, dopo pranzo, ci si riposa un attimo e ci si prepara per una scopetta. Forse sto di nuovo sentendo crescere l’erba, come diceva un mio professore di greco quando volevo trovare riferimenti improbabili. E però il mondo una volta era davvero paro: ad ogni esistenza, forza, azione o intenzione, ne doveva corrispondere sempre una uguale e contraria. Sia fisicamente che moralmente alla fine il conto di tutte le carte deve sempre essere paro. La creazione non aveva lasciato nulla al caso, niente era rimasto spaiato. Questo, forse, è il senso ultimo dell’enigmatica Giustizia di Parmenide, la Dike „che molto punisce”: non c’è posto per la misericordia nel mondo arcaico, la riduzione della pena più che ingiusta era considerata immonda, ovvero fuori dall’ordine della creazione; in una parola: dispara.

„Fatemi prendere sul serio il gioco della scopa!” Mi unisco anch’io all’invito di Erri De Luca (Il giorno prima della felicità) a cercare la saggezza nascosta nelle piccole cose di tutti i giorni.