domenica 27 settembre 2015

E forse quel che cerco neanche c'è. Puntata nona.

  Quella ungherese è una nazione piccola, non abituata a stare tanto spesso nei notiziari della BBC o della CNN. È strano, o forse emblematico, che da molti giorni questo Paese sia diventato improvvisamente al centro dell'interesse di tutti. Eppure fu qui che, nei secoli passati e soprattutto dopo la caduta di Bisanzio, per tanto a lungo si scontrarono le forze dell'Occidente e dell'Oriente e si arginava l’annoso espansionismo turco. Anche oggi l'Ungheria deve fronteggiare una problematica forse più grande di lei ed è possibile che dal suo comportamento dipenderà molto delle sorti dell'intero continente.
In questa sede ci si propone di parlare soltanto di lingua, con gli scarsi mezzi di cui si dispone, evitando possibilmente di formulare facili giudizi politici sulla complessa situazione attuale, sempre con l'incrollabile certezza che la vera cultura si riconosce nella solidarietà e nella pace, ma prende inevitabilmente le distanze dall'intransigenza del fanatismo e dalla matta arroganza del terrorismo. Non dimenticando le incerte vicissitudini storiche, sfuggenti alla comprensione di noi gente semplice, accanto agli spesso tragici sconvolgimenti migratori di questi tempi, cerco qui di scovare una vita che ancora è scandita dai cicli della natura e dal succedersi delle stagioni, una normalità che poi è spesso alla base di fenomeni linguistici che ci interessano.
szőlő
  Non considerando l'inestinto caldo di quest'anno, normalmente la stagione invecchia presto in Ungheria e chiude i cancelli già il 20 agosto con la festa di Re Santo Stefano I, padre della nazione, quando ci si ritrova sulle rive del grande fiume a congedarsi coi fuochi d'artificio da un'altra estate sfuggitaci di mano. Con l'autunno arriva la gioia matura ed arcaica della vendemmia, e colline e campi delle borvidék sono in fermento. Per noi vendemmiare è proprio “ricavare il vino”, visto che il latino vindemia è separabile in vinum de-emere, ottenendo il succo dall'uvido frutto della vite. La vendemmia ungherese è szüret, che a prima vista non sembra svelarci molto. Se però gli accostiamo il verbo szűr (“filtrare”) oppure szürcsöl (“stillare”) la parola comincia a parlare. La nostra uva è ricca d'acqua (uvidus: “gonfio d'acqua come l'uva”, come ci illustra Servio distinguendolo da umidus: “bagnato superficialmente”), l'uva ungherese (szőlő), invece, rimanda a tonalità cromatiche per una stretta somiglianza, non etimologica, con l'aggettivo biondo: szőkeE non a caso la biondeggiante uva ungherese dà vita ai vini locali più pregiati, come il famoso Tokaji, mentre di solito il Bikavér (“sangue di toro”), rosso secco ottenuto dalla miscela di nove vitigni differenti, anche se molto apprezzato dai magiari, trova pochi consensi tra i palati al di qua delle Alpi. Quando nel nono secolo furono i magiari i protagonisti della grande migrazione che li portò ad occupare il bacino dei Carpazi, si fermarono nella decaduta provincia pannonica e vi trovarono le coltivazioni dei vitigni che i romani avevano portato in queste zone. Tuttavia gli antichi magiari già conoscevano il vino prima della cosiddetta honfoglalás (la “presa della patria”, HON “casa”, “patria” FOGLALÁS “occupazione”), tant'è che la parola ungherese bor (“vino”) ci porta nientemeno che nell’Antica Persia, la patria del famoso vitigno Shiraz e la casa del più antico vino del mondo mai rinvenuto: settemila anni! La parola medio-persiana bōr, pare sia passata attraverso le antiche popolazioni turcofone come gli uiguri, che erano al tempo stanziate nell'Asia centrale in prossimità delle probabili zone d’origine dei magiari. Noi abbiamo a lungo dibattuto sull’origine della parola vino: chi propugnava la tesi indoeuropea, chi invece quella semitica. Noi, sospettosi di imbatterci nel temibile campo delle ideologie, restiamo fuori dalla zuffa etimologica e ci limitiamo a notare la somiglianza del nome del prodotto con quello dell’albero.
  Il vino pannonico deve aver fatto perdere la bussola (iránytű ) ai sette vezér della tradizione: si fermarono con le loro tribù e costruirono qui le loro case. La lingua ungherese, che nei secoli è rimasta pressoché inalterata, ha il potere di rappresentare concetti, cose e persone nelle loro peculiarità. Come per esempio bussola: in italiano è solo una semplice “scatoletta”, in ungherese l’ ”ago (TŰ) della direzione (IRÁNY)” non lascia scampo ad equivoci. Beh, gli ungheresi del nono secolo non avevano di certo la bussola e dovevano per forza orientarsi (IR-ÁNY-UL: “darsi una direzione”) coi modi più naturali che erano alla portata di tutti gli uomini della terra, come l’osservazione del cielo.
  Per noi che siamo al di qua dell’equatore la direzione più importante, l’unica di solito indicata con una freccia nelle cartine geografiche, è il nord. La parola non è certo di casa nostra, come anche sud, est ed ovest, ma si tratta evidentemente di espressioni germaniche che devono la loro fortuna alla loro brevità. In italiano diciamo settentrione, espressione bellissima nata con la scoperta delle costellazioni cirumpolari; le stelle in prossimità del polo nord celeste non tramontano e rimangono sempre sopra l’orizzonte nord: i septem triones, i sette buoi, sono evidentemente le stelle del Carro viste attraverso la fantasia popolare, diventate rassicurante riferimento ed entrate così a far parte del lessico quotidiano. Lascio ora che nuove muse ci dimostrin l’orse e vedo cosa ci dice questa taumaturgica lingua ungherese che, ricordo, identifica giustamente giorno e sole con un’unica parola (nap) perché SONO la stessa cosa. Una delle cose che balzano agli occhi ad uno straniero è che il nord si identifica completamente con la notte; è evidente che il nord sia la parte in cui il sole è eternamente vacante: észak (ÉJ-SZAK, “nord”, lett: “parte della notte”, cfr. anche: éj, éjszaka: “notte”). In effetti i quattro punti cardinali (VILÁG-TÁJ, “zone di luce”, oppure ÉG-TÁJ “zone del cielo”) altro non sono che i quattro momenti della giornata (NAP-SZAK, “parti del giorno” ovvero “posizioni del sole”).
Continuo orientandomi ad oriente, e mi rivolgo a KEL-ET, che è proprio il nostro levante. Come cambia tutto a seconda dei punti di vista: l’Austria che è letteralmete il “regno orientale” (Öster-reich) visto da qui appare un nome insensato, mentre se provate ad annoverare l’Ungheria tra i cosiddetti “Paesi dell’est” vi si risponderà all’austriaca: “Nossignore, noi siamo mitteleuropei’”... Del verbo KEL (“alzarsi”) ne ho parlato un pochino nella puntata seconda. A chi conosce Budapest verrà in mente la stazione ferroviaria est Keleti Pályaudvár, mentre chi va al lago Balaton in treno, parte da Déli Pályaudvár, la stazione sud. Come anche in italiano, il sud si definisce col momento della giornata in cui il sole è alla massima altezza e comincia la sua discesa. Il dél (“sud” e “mezzodì”) è etimologicamente connesso col verbo döl che significa “crollare perpendicolarmente” e quindi “culminare”. Col sud si scandiscono in due le attività della giornata: prima di mezzogiorno sono délelőtti (lett.:“del davanti al culmine”), invece dopo il transito del sole sul meridiano sono attività délutáni (“dopo il culmine”, “post-meridiano”).
Il dramma latino che si scorge nella caduta rovinosa del sole in occidente, in occaso (“cadere contro”), è in ungherese simpaticamente attenuato da nyugat, in cui la radice NYUG- rientra nel lessico della pennichella (vedi: nyugalom “quiete”, nyugszik “calmarsi”, “riposarsi”). Ritorna il tema della caduta nel termine este (“sera”), confronta: ES-IK “cadere”, ES-ET “caso”, “accadimento”.
Non la tiro tanto per le lunghe: vi sarete accorti, miei coraggiosissimi lettori, che il tempo che ho da dedicare alle scabrose avventure non è molto. Il tempo è una cosa misteriosa, difficile da spiegarsi, molto più dello spazio. Per quest’ultimo abbiamo diverse parole che ce lo traducono e ce lo definiscono esaurientemente: hely, in senso di posto, luogo adibito a qualcosa, tér, in senso di superficie bidimensionale ed űr, lo spazio tridimensionale, il cosmo che, come ci insegnano i fisici e gli esperti della materia, è essenzialmente vuoto: üres (“vuoto”, “spazioso”).
Per tempo c’è un’unica e misteriosissima parola. Ma ve ne parlerò un’altra volta.
È tardi, devo dormire, domattina (reggel) dovrò alzarmi presto (rég).
Tanto tempo è passato,(régen volt) dall’ultimo mio post. Buonanotte a tutti voi che ancora mi seguite nonostante i miei rari aggiornamenti!


Sì, giusta obiezione, attento lettore: “presto” si dice korán che però fa parte del lessico del tempo ed ho deciso di parlarne più avanti.
Ci sono motivi per cui preferisco non correggere. Adesso vado, altrimenti davvero finisce che spengo il computer all’ora della colazione (reggeli)... 

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