Quella ungherese è una nazione piccola, non abituata a
stare tanto spesso nei notiziari della BBC o della CNN. È strano, o forse
emblematico, che da molti giorni questo Paese sia diventato improvvisamente al
centro dell'interesse di tutti. Eppure fu qui che, nei secoli passati e
soprattutto dopo la caduta di Bisanzio, per tanto a lungo si scontrarono le
forze dell'Occidente e dell'Oriente e si arginava l’annoso espansionismo turco.
Anche oggi l'Ungheria deve fronteggiare una problematica forse più grande di
lei ed è possibile che dal suo comportamento dipenderà molto delle sorti
dell'intero continente.
In questa sede ci si propone di parlare soltanto di
lingua, con gli scarsi mezzi di cui si dispone, evitando possibilmente di
formulare facili giudizi politici sulla complessa situazione attuale, sempre
con l'incrollabile certezza che la vera cultura si riconosce nella solidarietà
e nella pace, ma prende inevitabilmente le distanze dall'intransigenza del
fanatismo e dalla matta arroganza del terrorismo. Non dimenticando le incerte
vicissitudini storiche, sfuggenti alla comprensione di noi gente semplice,
accanto agli spesso tragici sconvolgimenti migratori di questi tempi, cerco qui
di scovare una vita che ancora è scandita dai cicli della natura e dal
succedersi delle stagioni, una normalità che poi è spesso alla base di fenomeni
linguistici che ci interessano.
| szőlő |
Non considerando l'inestinto caldo di quest'anno,
normalmente la stagione invecchia presto in Ungheria e chiude i cancelli già il
20 agosto con la festa di Re Santo Stefano I, padre della nazione, quando ci si
ritrova sulle rive del grande fiume a congedarsi coi fuochi d'artificio da
un'altra estate sfuggitaci di mano. Con l'autunno arriva la gioia matura ed
arcaica della vendemmia, e colline e campi delle borvidék sono in
fermento. Per noi vendemmiare è proprio “ricavare il vino”, visto che il latino
vindemia è separabile in vinum de-emere, ottenendo il succo dall'uvido
frutto della vite. La vendemmia ungherese è szüret,
che a prima vista non sembra svelarci molto. Se però gli accostiamo il verbo szűr (“filtrare”) oppure szürcsöl (“stillare”) la parola comincia
a parlare. La nostra uva è ricca d'acqua (uvidus: “gonfio d'acqua
come l'uva”, come ci illustra Servio distinguendolo da umidus: “bagnato
superficialmente”), l'uva ungherese (szőlő),
invece, rimanda a tonalità cromatiche per una stretta somiglianza, non
etimologica, con l'aggettivo biondo: szőke. E non a caso la biondeggiante uva ungherese dà vita ai
vini locali più pregiati, come il famoso Tokaji, mentre di solito il Bikavér
(“sangue di toro”), rosso secco ottenuto dalla miscela di nove vitigni
differenti, anche se molto apprezzato dai magiari, trova pochi consensi tra i palati
al di qua delle Alpi. Quando nel nono secolo furono i magiari i protagonisti
della grande migrazione che li portò ad occupare il bacino dei Carpazi, si
fermarono nella decaduta provincia pannonica e vi trovarono le coltivazioni dei
vitigni che i romani avevano portato in queste zone. Tuttavia gli antichi
magiari già conoscevano il vino prima della cosiddetta honfoglalás (la
“presa della patria”, HON “casa”, “patria” FOGLALÁS “occupazione”), tant'è che
la parola ungherese bor (“vino”) ci porta nientemeno che nell’Antica
Persia, la patria del famoso vitigno Shiraz e la casa del più antico vino
del mondo mai rinvenuto: settemila anni! La parola medio-persiana bōr,
pare sia passata attraverso le antiche popolazioni turcofone come gli uiguri,
che erano al tempo stanziate nell'Asia centrale in prossimità delle probabili
zone d’origine dei magiari. Noi abbiamo a lungo dibattuto sull’origine della
parola vino: chi propugnava la tesi
indoeuropea, chi invece quella semitica. Noi, sospettosi di imbatterci nel
temibile campo delle ideologie, restiamo fuori dalla zuffa etimologica e ci
limitiamo a notare la somiglianza del nome del prodotto con quello dell’albero.
Il vino pannonico deve aver fatto perdere la
bussola (iránytű ) ai sette vezér della tradizione: si fermarono con
le loro tribù e costruirono qui le loro case. La lingua ungherese, che nei secoli è rimasta pressoché
inalterata, ha il potere di rappresentare concetti, cose e persone nelle loro
peculiarità. Come per esempio bussola:
in italiano è solo una semplice “scatoletta”, in ungherese l’ ”ago (TŰ) della
direzione (IRÁNY)” non lascia scampo ad equivoci. Beh, gli ungheresi del nono
secolo non avevano di certo la bussola e dovevano per forza orientarsi (IR-ÁNY-UL:
“darsi una direzione”) coi modi più naturali che erano alla portata di tutti
gli uomini della terra, come l’osservazione del cielo.
Per noi che siamo al di qua dell’equatore la direzione
più importante, l’unica di solito indicata con una freccia nelle cartine
geografiche, è il nord. La parola non è certo di casa nostra, come anche sud,
est ed ovest, ma si tratta evidentemente di espressioni germaniche che devono
la loro fortuna alla loro brevità. In italiano diciamo settentrione, espressione bellissima nata con la scoperta delle
costellazioni cirumpolari; le stelle in prossimità del polo nord celeste non
tramontano e rimangono sempre sopra l’orizzonte nord: i septem triones, i sette buoi, sono evidentemente le stelle del
Carro viste attraverso la fantasia popolare, diventate rassicurante riferimento
ed entrate così a far parte del lessico quotidiano. Lascio ora che nuove muse ci dimostrin l’orse e vedo
cosa ci dice questa taumaturgica lingua ungherese che, ricordo, identifica
giustamente giorno e sole con un’unica parola (nap) perché SONO la stessa cosa. Una
delle cose che balzano agli occhi ad uno straniero è che il nord si identifica completamente
con la notte; è evidente che il nord sia la parte in cui il sole è eternamente
vacante: észak (ÉJ-SZAK, “nord”, lett:
“parte della notte”, cfr. anche: éj, éjszaka: “notte”). In effetti i quattro
punti cardinali (VILÁG-TÁJ, “zone di luce”, oppure ÉG-TÁJ “zone del cielo”)
altro non sono che i quattro momenti della giornata (NAP-SZAK, “parti del
giorno” ovvero “posizioni del sole”).
Continuo orientandomi ad oriente, e mi rivolgo a
KEL-ET, che è proprio il nostro levante.
Come cambia tutto a seconda dei punti di vista: l’Austria che è letteralmete il
“regno orientale” (Öster-reich) visto da qui appare un nome insensato, mentre
se provate ad annoverare l’Ungheria tra i cosiddetti “Paesi dell’est” vi si
risponderà all’austriaca: “Nossignore, noi siamo mitteleuropei’”... Del verbo
KEL (“alzarsi”) ne ho parlato un pochino nella puntata seconda. A chi conosce
Budapest verrà in mente la stazione ferroviaria est Keleti Pályaudvár, mentre
chi va al lago Balaton in treno, parte da Déli Pályaudvár, la stazione sud. Come
anche in italiano, il sud si definisce col momento della giornata in cui il
sole è alla massima altezza e comincia la sua discesa. Il dél (“sud” e “mezzodì”) è etimologicamente connesso col verbo döl che significa “crollare
perpendicolarmente” e quindi “culminare”. Col sud si scandiscono in due le
attività della giornata: prima di mezzogiorno sono délelőtti (lett.:“del davanti al culmine”), invece dopo il transito
del sole sul meridiano sono attività délutáni (“dopo il culmine”,
“post-meridiano”).
Il dramma latino che si scorge nella caduta rovinosa del
sole in occidente, in occaso (“cadere contro”), è in ungherese
simpaticamente attenuato da nyugat,
in cui la radice NYUG- rientra nel lessico della pennichella (vedi: nyugalom “quiete”, nyugszik “calmarsi”, “riposarsi”). Ritorna il tema della caduta nel
termine este (“sera”), confronta:
ES-IK “cadere”, ES-ET “caso”, “accadimento”.
Non la tiro tanto per le lunghe: vi sarete accorti,
miei coraggiosissimi lettori, che il tempo che ho da dedicare alle scabrose
avventure non è molto. Il tempo è una cosa misteriosa, difficile da spiegarsi,
molto più dello spazio. Per quest’ultimo abbiamo diverse parole che ce lo traducono
e ce lo definiscono esaurientemente: hely,
in senso di posto, luogo adibito a qualcosa, tér, in senso di superficie bidimensionale ed űr, lo spazio tridimensionale, il cosmo che, come ci insegnano i
fisici e gli esperti della materia, è essenzialmente vuoto: üres (“vuoto”, “spazioso”).
Per tempo c’è
un’unica e misteriosissima parola. Ma ve ne parlerò un’altra volta.
È tardi, devo dormire, domattina (reggel) dovrò alzarmi presto (rég).
Tanto tempo è passato,(régen volt) dall’ultimo mio post. Buonanotte a tutti voi che ancora
mi seguite nonostante i miei rari aggiornamenti!
Sì, giusta obiezione, attento lettore: “presto” si
dice korán che però fa parte del
lessico del tempo ed ho deciso di parlarne più avanti.
Ci sono motivi per cui preferisco non correggere. Adesso vado, altrimenti
davvero finisce che spengo il computer all’ora della colazione (reggeli)...
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