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| John Heinrich Füssli "The nightmare", 1781 |
Fuori era la sera gelida di un tardo dicembre ungherese.
Dentro avevamo finito di cenare con le abbondanti rimanenze del pranzo di
Natale. Fu allora che mio padre mi parlò della ianara.
Succedeva che nel beneventano e nell'avellinese alcune
persone, anche molto rispettate ed attendibili, lamentassero la presenza di una
maligna entità notturna: si introduceva nelle abitazioni e angustiava il sonno
dei malcapitati, provocando loro incubi, visioni angoscianti e malesseri vari.
Ma col sorgere del sole essa si dileguava nel nulla. Chi la vide la descrive
come una vecchia decrepita di infima statura, ma al contempo agile e
pericolosa: la sua presenza portava alla disperazione uomini e donne.
Esistevano, tuttavia, dei rimedi per scongiurarla. Uno di questi era posare una
scopa dietro l'uscio: la ianara avrebbe avuto l'inesplicabile bisogno di
contare una ad una tutte le setole della scopa e non si sarebbe raccapezzata
prima dell'alba, quando, con la luce del sole, ella sarebbe svanita prima di
arrecare alcun danno agli inquilini.
C'era anche un altro modo, forse adatto ai più
coraggiosi, attraverso il quale si poteva non solo renderla innocua, ma la si
poteva anche soggiogare e farsela propria serva: la ianara soleva attaccare
sedendosi di peso sul petto della vittima dormiente; questi, una volta
svegliatosi, doveva avere la prontezza di afferrare la strega all'improvviso ed
a quel punto lei avrebbe chiesto:
«Per che mi prendi?», vale a dire con cosa, da
che cosa. Bisognava avere sangue freddo ed evitare di dire pe' li
cavilli (per i capelli), altrimenti lei avrebbe risposto:
«Ed io me ne scioglio come un'anguilla!» e,
magicamente divincolatasi, avrebbe continuato ad molestarci la notte seguente.
C'era una sola risposta giusta da dare:
«Pe' fierr' e acciaj'», vale a dire con ferro
ed acciaio: così dicendo la ianara diventava prigioniera e sarebbe stata
costretta ad eseguire ogni nostro ordine per poi non fare più ritorno.
Una facile accortezza preventiva, invece, consisterebbe
nell'evitare i cibi pesanti la sera: pare che una digestione difficile aumenti
sensibilmente il rischio di attacchi della ianara...
Ecco, direbbero alcuni, come la fantasia popolare cerchi
di darsi delle spiegazioni di fronte a fenomeni umani come in questo caso il pavor
nocturnus, i disturbi del sonno in generale o semplicemente gli incubi.
Qualcuno tra voi lettori già conoscerà il vero
significato della parola “incubo”: gli incubi nell'immaginario popolare latino
erano delle entità maschili, degli spiritelli, che nottetempo si introducevano
nelle case per avere dei rapporti sessuali con le donne durante il sonno.
Esistevano anche le succube, versione femminile degli incubi, che invece si
occupavano degli uomini dormienti. Ed in effetti entrambe le parole contengono
il verbo cubare, che significa “giacere” anche in senso sessuale. Ma i
tratti di questi visitatori notturni non sono relegati al solo mondo latino.
Basti pensare al significato dell'inglese nightmare che non è la
“cavalla della notte” (che deve aver originato l'ambiguità presente nel celebre
“Incubo” di Füssli, vedi figura), bensì “folletto notturno”: -mare ha
infatti origine nel norreno mara, il nome di uno spirito maligno che
siede sul petto degli addormentati provocandogli incubi, da qui la creatura in
tedesco detta Nachtmahr. Questi folletti malvagi sono sorprendentemente
presenti anche in quasi tutto il mondo slavo (come ad esempio il croato mora)
e conservano intatte le stesse caratteristiche di incubi e succube.
In ungherese l'incubo inteso come “brutto sogno” risponde
alla voce rémálom, parola composta da rém ed álom.
Cominciamo dalla seconda parola, ÁL-OM, che da sola significa “sogno” e che fa
parte dello stesso campo semantico di AL-SZIK (dormire) e ALV-ÁS (l'atto del
dormire). Tutte queste parole rimandano alla particella AL che indica un giù,
uno stare sotto, (vedere le voci alatt, alul, alá)
che, se applicato al tema del sonno, mi fa pensare, oltre all'atto fisico del
coricarsi, di stare giù, anche alla latenza della personalità che si cela sotto
la momentanea interruzione delle interazioni col mondo esterno. Mi metto a
sognare e mi piace pensare che forse anche il nostro sonno ed il latino somnium
nascondano al loro interno lo stesso concetto: la preposizione sub (SUB+NIUM),
con la labiale presente in quasi tutte le varianti indoeuropee (provenzale sopnis,
lituano sapnas, antico slavo supati) come anche in greco: ὓπνος dove ὑπο è proprio “sotto”. La prima parte di rémálom, l'incubo
ungherese, è questo RÉM, presente in molte espressioni interessanti come rémisztő
“orrendo”, rémület “panico”, rémkép “spettro”, “apparizione
spettrale”. Il significato di base sembra quello della paura, per cui rémálom
dovrebbe banalmente essere “sogno pauroso”, ma la cosa mi lascia un po' deluso,
non mi convince. Mi sforzo, cerco nella mia testa qualche espressione che mi
possa mettere su una strada piú avventurosa, ma niente: non mi viene in mente
niente.
In questi casi, quando si fa uno sforzo nella memoria che
però non produce i risultati sperati, gli ungheresi usano l'espressione nem
rémlik e cioè letteralmente “non mi pare”, “non mi sembra”: pertanto il RÉM
sembra originariamente legato alla manifestazione di una presenza latente e
solo successivamente alla paura che essa può suscitare.
Qui le cose da dire in proposito sarebbero terminate, se
non mi fossi casualmente imbattuto nella traduzione ungherese di una nota
poesia della letteratura tedesca. Di certo saprete che il massimo poeta tedesco
Wolfgang Goethe aveva una grande passione per la poesia popolare e scrisse
quella tremenda ballata intitolata Erlkönig, in cui il “re degli elfi”
paurosamente appare ad un bambino malato durante la sua fatale cavalcata alla
ricerca di un dottore. Ebbene, la traduzione ungherese del brano goethiano Re
degli elfi è proprio Rémkirály (király: “re”): se l'elfo
malvagio è per gli ungheresi rém, allora siamo fortemente tentati di
scorgere nel tedesco Albtraum (“incubo”, ma letteralmente “sogno di
elfo”) il punto di riferimento per la formazione del rémálom ungherese.
Ma vorrei tornare ancora per un attimo alla nostra
malefica elfa sannita, la ianara: viene da chiedere cosa abbia di
particolare rispetto ai suoi simili europei. In altre parole: che cos'è
veramente la ianara? Alla luce dei pochi elementi di cui dispongo, l'idea è quella
della sopravvivenza attraverso i secoli di un antico genio dei passaggi, delle
porte che mettono in collegamento un fuori con un dentro, la casa col mondo
esterno, e, volendo, anche l'individuo col suo inconscio. Se la scopa dietro la
porta pare un indizio troppo debole, cos'altro sarebbero il ferro e l'acciaio
della formula, se non i cardini ed i chiavistelli che assicurano la porta
all'uscio? Il nome stesso della ianara troverebbe derivazione nella voce latina
ianua, che oggi sopravvive solo nei nomi Giano (il dio bifronte
della porta), Gennaio (la porta del nuovo anno) e Gennaro
(solitamente porta Esposito di cognome...), ma già in antico comunemente
rimpiazzata da porta, che sembra essere il participio di un perduto verbo poro*,
suffragato della voce greca ποράω
(“attraversare”), sanscrita piparmi (“condurre, portare”) e tedesca fahren.
La stessa parola italiana portare potrebbe essere un frequentativo
(verbo formato sulla base del participio passato, come ad esempio cano, cantum
> cantare oppure premo, pressum > pressare)
del sopradetto poro*, quindi portare poteva originariamente
significare “mandare attraverso la porta”
Così, prima di finire, dedichiamo un ultimo pensiero alla
porta ungherese ajtó, piccola ma ben articolata:
AJ*: antica voce verbale ugrica, “liberarsi”, “passare”
AJ-T*: “liberare”, “far passare” (per il valore di -T-
vedi puntata seconda)
AJ-T-Ó: “che libera”, “che fa passare” e dunque
“porta” (per il valore di -Ó/-Ő vedi puntata terza)
Proprio come la nostra porta, anche ajtó cela un antico verbo ormai rimosso, ma che sopravvive nei
frammenti archeologici incastonati nella lingua ungherese moderna, come ad
esempio lejtő (“discesa”, “piano inclinato”: LE-EJ-T-Ő) o felejt
(“dimenticare”: FEL-EJ-T), in cui -EJ- é la versione “bassa” di -AJ- e LE e FEL
sono rispettivamente “giú” e “su”.
Per stasera direi di
chiudere, buonanotte e szép álmokat!

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