domenica 25 gennaio 2015

Non aprite quella porta. Puntata ottava.

John Heinrich Füssli
"The nightmare", 1781
Fuori era la sera gelida di un tardo dicembre ungherese. Dentro avevamo finito di cenare con le abbondanti rimanenze del pranzo di Natale. Fu allora che mio padre mi parlò della ianara.
Succedeva che nel beneventano e nell'avellinese alcune persone, anche molto rispettate ed attendibili, lamentassero la presenza di una maligna entità notturna: si introduceva nelle abitazioni e angustiava il sonno dei malcapitati, provocando loro incubi, visioni angoscianti e malesseri vari. Ma col sorgere del sole essa si dileguava nel nulla. Chi la vide la descrive come una vecchia decrepita di infima statura, ma al contempo agile e pericolosa: la sua presenza portava alla disperazione uomini e donne. Esistevano, tuttavia, dei rimedi per scongiurarla. Uno di questi era posare una scopa dietro l'uscio: la ianara avrebbe avuto l'inesplicabile bisogno di contare una ad una tutte le setole della scopa e non si sarebbe raccapezzata prima dell'alba, quando, con la luce del sole, ella sarebbe svanita prima di arrecare alcun danno agli inquilini.
C'era anche un altro modo, forse adatto ai più coraggiosi, attraverso il quale si poteva non solo renderla innocua, ma la si poteva anche soggiogare e farsela propria serva: la ianara soleva attaccare sedendosi di peso sul petto della vittima dormiente; questi, una volta svegliatosi, doveva avere la prontezza di afferrare la strega all'improvviso ed a quel punto lei avrebbe chiesto:
«Per che mi prendi?», vale a dire con cosa, da che cosa. Bisognava avere sangue freddo ed evitare di dire pe' li cavilli (per i capelli), altrimenti lei avrebbe risposto:
«Ed io me ne scioglio come un'anguilla!» e, magicamente divincolatasi, avrebbe continuato ad molestarci la notte seguente.
C'era una sola risposta giusta da dare:
«Pe' fierr' e acciaj'», vale a dire con ferro ed acciaio: così dicendo la ianara diventava prigioniera e sarebbe stata costretta ad eseguire ogni nostro ordine per poi non fare più ritorno.
Una facile accortezza preventiva, invece, consisterebbe nell'evitare i cibi pesanti la sera: pare che una digestione difficile aumenti sensibilmente il rischio di attacchi della ianara...
Ecco, direbbero alcuni, come la fantasia popolare cerchi di darsi delle spiegazioni di fronte a fenomeni umani come in questo caso il pavor nocturnus, i disturbi del sonno in generale o semplicemente gli incubi.
Qualcuno tra voi lettori già conoscerà il vero significato della parola “incubo”: gli incubi nell'immaginario popolare latino erano delle entità maschili, degli spiritelli, che nottetempo si introducevano nelle case per avere dei rapporti sessuali con le donne durante il sonno. Esistevano anche le succube, versione femminile degli incubi, che invece si occupavano degli uomini dormienti. Ed in effetti entrambe le parole contengono il verbo cubare, che significa “giacere” anche in senso sessuale. Ma i tratti di questi visitatori notturni non sono relegati al solo mondo latino. Basti pensare al significato dell'inglese nightmare che non è la “cavalla della notte” (che deve aver originato l'ambiguità presente nel celebre “Incubo” di Füssli, vedi figura), bensì “folletto notturno”: -mare ha infatti origine nel norreno mara, il nome di uno spirito maligno che siede sul petto degli addormentati provocandogli incubi, da qui la creatura in tedesco detta Nachtmahr. Questi folletti malvagi sono sorprendentemente presenti anche in quasi tutto il mondo slavo (come ad esempio il croato mora) e conservano intatte le stesse caratteristiche di incubi e succube.
In ungherese l'incubo inteso come “brutto sogno” risponde alla voce rémálom, parola composta da rém ed álom. Cominciamo dalla seconda parola, ÁL-OM, che da sola significa “sogno” e che fa parte dello stesso campo semantico di AL-SZIK (dormire) e ALV-ÁS (l'atto del dormire). Tutte queste parole rimandano alla particella AL che indica un giù, uno stare sotto, (vedere le voci alatt, alul, alá) che, se applicato al tema del sonno, mi fa pensare, oltre all'atto fisico del coricarsi, di stare giù, anche alla latenza della personalità che si cela sotto la momentanea interruzione delle interazioni col mondo esterno. Mi metto a sognare e mi piace pensare che forse anche il nostro sonno ed il latino somnium nascondano al loro interno lo stesso concetto: la preposizione sub (SUB+NIUM), con la labiale presente in quasi tutte le varianti indoeuropee (provenzale sopnis, lituano sapnas, antico slavo supati) come anche in greco: ὓπνος dove ὑπο è proprio “sotto”. La prima parte di rémálom, l'incubo ungherese, è questo RÉM, presente in molte espressioni interessanti come rémisztő “orrendo”, rémület “panico”, rémkép “spettro”, “apparizione spettrale”. Il significato di base sembra quello della paura, per cui rémálom dovrebbe banalmente essere “sogno pauroso”, ma la cosa mi lascia un po' deluso, non mi convince. Mi sforzo, cerco nella mia testa qualche espressione che mi possa mettere su una strada piú avventurosa, ma niente: non mi viene in mente niente.
In questi casi, quando si fa uno sforzo nella memoria che però non produce i risultati sperati, gli ungheresi usano l'espressione nem rémlik e cioè letteralmente “non mi pare”, “non mi sembra”: pertanto il RÉM sembra originariamente legato alla manifestazione di una presenza latente e solo successivamente alla paura che essa può suscitare.
Qui le cose da dire in proposito sarebbero terminate, se non mi fossi casualmente imbattuto nella traduzione ungherese di una nota poesia della letteratura tedesca. Di certo saprete che il massimo poeta tedesco Wolfgang Goethe aveva una grande passione per la poesia popolare e scrisse quella tremenda ballata intitolata Erlkönig, in cui il “re degli elfi” paurosamente appare ad un bambino malato durante la sua fatale cavalcata alla ricerca di un dottore. Ebbene, la traduzione ungherese del brano goethiano Re degli elfi è proprio Rémkirály (király: “re”): se l'elfo malvagio è per gli ungheresi rém, allora siamo fortemente tentati di scorgere nel tedesco Albtraum (“incubo”, ma letteralmente “sogno di elfo”) il punto di riferimento per la formazione del rémálom ungherese.
Ma vorrei tornare ancora per un attimo alla nostra malefica elfa sannita, la ianara: viene da chiedere cosa abbia di particolare rispetto ai suoi simili europei. In altre parole: che cos'è veramente la ianara? Alla luce dei pochi elementi di cui dispongo, l'idea è quella della sopravvivenza attraverso i secoli di un antico genio dei passaggi, delle porte che mettono in collegamento un fuori con un dentro, la casa col mondo esterno, e, volendo, anche l'individuo col suo inconscio. Se la scopa dietro la porta pare un indizio troppo debole, cos'altro sarebbero il ferro e l'acciaio della formula, se non i cardini ed i chiavistelli che assicurano la porta all'uscio? Il nome stesso della ianara troverebbe derivazione nella voce latina ianua, che oggi sopravvive solo nei nomi Giano (il dio bifronte della porta), Gennaio (la porta del nuovo anno) e Gennaro (solitamente porta Esposito di cognome...), ma già in antico comunemente rimpiazzata da porta, che sembra essere il participio di un perduto verbo poro*, suffragato della voce greca ποράω (“attraversare”), sanscrita piparmi (“condurre, portare”) e tedesca fahren. La stessa parola italiana portare potrebbe essere un frequentativo (verbo formato sulla base del participio passato, come ad esempio cano, cantum > cantare oppure premo, pressum > pressare) del sopradetto poro*, quindi portare poteva originariamente significare “mandare attraverso la porta”
Così, prima di finire, dedichiamo un ultimo pensiero alla porta ungherese ajtó, piccola ma ben articolata:

AJ*: antica voce verbale ugrica, “liberarsi”, “passare”
AJ-T*: “liberare”, “far passare” (per il valore di -T- vedi puntata seconda)
AJ-T-Ó: “che libera”, “che fa passare” e dunque “porta” (per il valore di -Ó/-Ő vedi puntata terza)

Proprio come la nostra porta, anche ajtó cela un antico verbo ormai rimosso, ma che sopravvive nei frammenti archeologici incastonati nella lingua ungherese moderna, come ad esempio lejtő (“discesa”, “piano inclinato”: LE-EJ-T-Ő) o felejt (“dimenticare”: FEL-EJ-T), in cui -EJ- é la versione “bassa” di -AJ- e LE e FEL sono rispettivamente “giú” e “su”.


Per stasera direi di chiudere, buonanotte e szép álmokat!

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