| figura 1: mondare un orbe |
Beh, se proprio non c’è niente di
meglio da fare, vogliate rimanere con me, qui, ad interrogarci contemplando l’ingarbugliata
matassa di fili, parole e storie che percorrono spazi e tempi e giungono fino a
noi. Come i segnali di luce del cosmo che dagli abissi spaziali ci arrivano
proveniendo da stelle magari già estinte, tali, direbbe un certo linguista,
sono le parole: superstiti bagliori di mondi perduti. E noi che le usiamo
quotidianamente ci facciamo portatori di quelle storie arcaiche fatte della
cura, dello stupore, delle paure, delle scoperte dei nostri padri. Le parole,
infatti, sono il frutto del ciclopico lavoro di ordinazione di suoni e cose, del
tempo eroico della sistematizzazione
di segni e significati (attenzione, in ungherese antenato ed eroe sono
quasi la stessa parola: ős, hős ! Una romantica conferma della grandezza dei progenitori inventori del
linguaggio).
Significare, fare il segno, equivale ad evocare alcune realtà nell’immediato non
disponibili. Quando emettiamo un segno linguistico come, che so, la parola „elefante”,
rendiamo presente nell’immaginazione nostra e dell’interlocutore l’imponente
mammifero proboscidato. Dato che per fortuna non basta pronunciare tale parola
per farcelo materializzare addosso con tutto il suo peso, si può dire che parlando
evochiamo delle realtà che in quel momento non sono presenti.
Seguiamo l’agglutinazione della
parola ungherese jelentés:
JEL: „segno”
JEL-EN: „presente” in quanto dà
segno di presenza (lett.: „sul segno”)
JEL-EN-T: „significare” perché rende
presente (per il valore di -T cfr. puntata seconda)
JEL-EN-T-ÉS la cosa resa presente, il „significato”.
Parola e significato viaggiano
nel tempo e nello spazio e mettono in contatto mondi che si trovano altrove
(MÁS-HOL) ed in altre epoche (MÁS-KOR). Oggi, che cercherò di confrontare il
nostro mondo con il világ ungherese, dovrò immaginarmi che
tipo di realtà gli antichi volevano evocare quando usavano tale espressione;
quindi ora più che mai occorre tenere a mente che la struttura del mondo
arcaico è in qualche modo sia spaziale che temporale, il dove-hol è mitologicamente anche un quando-kor e ciò sfugge alla comprensione di noi uomini moderni
abituati a pensare attraverso l’asse cartesiano di una scienza che si preoccupa
di evitare qualsiasi costruzione escatologica o trascendente. Ovviamente
esistono, e sono tanti, quegli scienziati che ammettono il trascendente, ma mi
sembra che nell’idea comune della gente oggi questo accostamento sia
contraddittorio.
Quando diciamo „mondo”, quasi
sempre ci riferiamo ad un’enorme palla girevole blu, marrone e bianca dotata di
atmosfera e sappiamo che in qualche modo tale palla ci ospita tutti, uomini,
bestie e stelle marine. Da bambino lo tenevo sulla scrivania: un mappamondo, che, come dice la parola
stessa, è la mappatura del mondo, ergo
il mondo è questo. Ma non sempre è stato così, quanto meno non nel pensiero
antico; perciò, per arrivare al mondo originario, bisognerebbe sbucciare il lemma di tutti quegli
strati di significato accumulatisi con il graduale sviluppo del sapere
scientifico.
Un esempio facile è la parola
„galassia”. Al giorno d’oggi una galassia è esclusivamente un grande insieme di
soli legati da un sistema di gravitazione, ce ne presenta a dozzine il
telescopio spaziale Hubble attraverso le stupefacenti istantanee che riesce a scattare: galassie a spirale, a
spirale-barrate, irregolari e via dicendo. Sollevando la buccia temporale piú esterna, scopriamo che una volta la parola galassia aveva solo la forma singolare e
pertanto indicava l’unica galassia conosciuta, ovvero la nostra, con tutte le
stelle visibili da Terra ad occhio nudo. Togliamo un altro strato ed appare la
galassia vista con gli occhi degli antichi, vale a dire la lattiginosa striscia
di cielo che taglia di traverso i due emisferi: la via lattea, che oggi a causa
dell’insensato abuso dell’illuminazione nei centri abitati è, ahimè, ridotta solo
ad un vago racconto degli esperti. Il progresso ci ha inconsapevolmente fatto
dimenticare che il nome di quelle remotissime e sconfinate città di stelle è lo
stesso che gli antichi hanno scelto per indicare il primo nutrimento che
riceviamo in questa vita: γάλαξ, „latte”, c’è forse qualcosa di più intimo? La
storia si diverte a giocare coi significati e crea le sue callidae iuncturae semantiche, accostamenti che si rivelano vertiginosamente
poetici.
Temo che con mondo le cose siano più complesse. Cosa significava, cosa
rap-PRESENT-ava la parola „mondo”? Sfatiamo un falso mito, quello del mondo
piatto. Temo che nessuno anticamente abbia mai pensato seriamente che il mondo
fosse piatto. Vado a memoria: Ovidio parla chiaramente di globo e lo fa senza
troppi proclami (Metamorfosi, I),
come fosse cosa risaputa; già Platone secoli addietro nel Fedone fa parlare un morente Socrate del mondo come un orbe
variopinto suddiviso in dodoci zone. A proposito: il pianeta non è piano, ma errante (dal verbo greco πλανάω, che significa „errare”,
„vagabondare”) e tale anche l’ungherese BOLYG-Ó, da intendere „errante”, si
vedano in proposito le espressioni bolyong
„gironzolare”, bolygat a múltat „rimestare
nel passato” e soprattutto l’operistico olandese volante bolygó hollandi. Gli uomini arcaici, anche proveniendo da culture
tra loro molto lontane, si capiscono al volo: infatti sia per noi che per i
magiari i pianeti sono gli astri vagabondi, quelli che si spostano a loro
piacimento rispetto alle altre stelle che invece sono fisse.
| figura 2 |
Quando una notizia si diffonde
ovunque tra la gente, arriva ai quattro
angoli del mondo, il che, alla luce di quanto detto in precedenza, potrebbe
sembrare contraddittorio: come trovare gli angoli in una struttura sferica? Per
sciogliere la difficoltà è necessaria qualche nozione di meccanica celeste e
poi considerare una rappresentazione profondamente arcaica come quella postata qui poco sopra (figura 2).
Molte sono le interpretazioni
iconografiche che si danno alle quattro figure messe agli angoli. In chiave cristiana c’è la portata universale del
messaggio evangelico, ci direbbero alla prima lezione di storia dell’arte; però
la questione è il senso di uno schema che già esisteva nella notte dei tempi, un’immagine
che ritroviamo ad esempio nel libro di Ezechiele durante la visione del carro
di Dio. Ebbene, non si tratta semplicemente dei quattro punti cardinali, o dei
quattro elementi classici, come di solito ci viene spiegato - passatemelo -
forse un po’ sommariamente. Questo è un codice iconografico molto tecnico che
conferma il mondo concepito come unità di cielo e terra: le due intersezioni
sulla volta celeste tra i circoli dell’equatore e dell’eclittica determinano
ortogonalmente quattro punti, equinoziali e solstiziali, che periodicamente vanno
ad occupare le costellazioni zodiacali a cui si riferiscono le quattro figure.
È evidente che tale concezione non sia prettamente spaziale, ma, come si diceva
più in alto, è fortissimo anche l’elemento temporale: i quattro angoli del
mondo, detti anche pilastri della terra,
sarebbero contemporaneamente l’ovunque
ed il sempre che per l’uomo antico
erano i segni inequivocabili della trascendenza.
Perdonatemi questo complicato excursus sui massimi sistemi, me lo sono concesso solo perché da quella carta da
gioco, il tarocco linkato qui sopra,
viene l’indizio che ci serve per togliere l’ultima buccia (è proprio il caso di
dirlo) del mondo. Alcuni sapranno che tale carta è anche nota come la ruota della fortuna. Ebbene, la ruota
ha un’unica prerogativa: girare. E di fatto quando cogliamo un succulento orbe
dal ramo del melo e prima di addentarlo lo mondiamo,
altro non facciamo che ruotarlo contro una lama. È molto plausibile una
dipendeza di mondo con la radice
sanscrita manth che significa „frullare,
girare, divellere”. Il cielo è un manto
di stelle, non tanto perché ci ricopre, ma perché gira! E che fascino che
esercita la voce pramantha, il
bastoncino usato per accendere il fuoco (Adalbert Kuhn), che, come ci insegnano
le giovani marmotte, va sfregato facendolo ruotare. Non sarà tanto casuale che il
previdente Prometeo, detto anche promantheùs,
sia il ladro del fuoco (De Santillana). Un caso interessantissimo è il greco μανθάνω che classicamente significa imparare e che non si riesce a capire
esattamente cosa caspita c’entri con la rotazione. Però chi ha letto Platone sa
che l’anima, che è immortale, può accedere alle realtà eterne attraverso il suo
peculiare movimento perpetuo e non generato e cioè la rotazione (Repubblica e Fedro).
Ancora sul mondo: in tedesco Welt, da wellan „girare”, confronta proprio il latino in vellere, volvere, l’italiana volta
celeste.
Il mondo per la nostra cultura è
l’immane armatura rotante che condensa ogni dimensione, lo spazio, il tempo e
tutto ciò che è all’interno di esso. La nostra lingua ha scelto di nominarlo
attraverso una delle sue caratteristiche, la rotazione: il mondo è la cosa rotante.
L’ungherese, lingua che pare
autodefinirsi, risolve il problema del mondo in termini molto più semplici e
precisi. Il mondo è semplicemente luce.
L’esistenza è luce, emessa o
riflessa non importa, l’essere e la luce sono legate a doppio filo nella parola
világ „mondo”, e tutto ciò che
appartiene al mondo, a rigor di grammatica, dovrebbe essere VILÁG-OS, tuttavia világos non significa „del mondo”, bensì
„chiaro, luminoso”. Interessante è come nei punti di contatto col nostro
occidente, come ad esempio in ambito religioso, si formino delle curiose
traduzioni di certe formule come ad esempio a
világ világossága, la luce del mondo, che in ungherese suona evidentemente
ripetitivo.
Nell’espressione idiomatica való világ, che significa „la realtà”
riconosciamo il participio -Ó/-Ő della radice di essere VAL- che è senz’altro
una variante del VIL- di luce, anzi,
a conferma di ciò il cugino dell’ungherese, il finlandese, dice valo intendendo proprio luce! Beh, oggi való világ è soprattutto il nome del big brother ungherese, la cui profondità intellettuale è fuori dalla
mia portata, perciò lascerò ad altri l’impresa di parlare di itt a lét a tét („qui è in gioco la
sopravvivenza” il motto del celebre reality televisivo); per altri, invece, è la luce che esiste, definizione
ungeherese di mondo.
A casa mia non si vede molta TV,
in compenso si gioca molto a carte.
Ci sono passatempi che hanno il
pregio di tenere allenate le capacità di strategia, di calcolo e di memoria,
proprio come quel concentrato di sapienza arcaica che è il gioco della scopa.
«Paro, paro, tutto il mondo è
paro»
Quante volte avrò sentito papà e
nonno tenere a mente questa regola così importante per gli esiti della partita!
E qui, i sognatori come noi, amano sentire la voce degli antenati che affidano
il loro messaggio morale e cosmologico ad un momento di intimità familiare,
quando, dopo pranzo, ci si riposa un attimo e ci si prepara per una scopetta.
Forse sto di nuovo sentendo crescere l’erba, come diceva un mio professore di greco quando volevo trovare
riferimenti improbabili. E però il mondo una volta era davvero paro: ad ogni
esistenza, forza, azione o intenzione, ne doveva corrispondere sempre una
uguale e contraria. Sia fisicamente che moralmente alla fine il conto di tutte le carte deve sempre essere paro. La
creazione non aveva lasciato nulla al caso, niente era rimasto spaiato. Questo,
forse, è il senso ultimo dell’enigmatica Giustizia di Parmenide, la Dike „che
molto punisce”: non c’è posto per la misericordia nel mondo arcaico, la
riduzione della pena più che ingiusta era considerata immonda, ovvero fuori dall’ordine della creazione; in una parola: dispara.
„Fatemi prendere sul serio il
gioco della scopa!” Mi unisco anch’io all’invito di Erri De Luca (Il giorno prima della felicità) a
cercare la saggezza nascosta nelle piccole cose di tutti i giorni.
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