lunedì 17 marzo 2014

Non si è fermato mai un momento. Puntata quinta.

figura 1: mondare un orbe
Miei cari lettori. Fatemelo dire, fatemi usare questo plurale. Siete diventati inaspettatamente numerosi, non riesco a capacitarmi. Ma che è già finito il campionato di calcio? Hanno interrotto Való Világ?
Beh, se proprio non c’è niente di meglio da fare, vogliate rimanere con me, qui, ad interrogarci contemplando l’ingarbugliata matassa di fili, parole e storie che percorrono spazi e tempi e giungono fino a noi. Come i segnali di luce del cosmo che dagli abissi spaziali ci arrivano proveniendo da stelle magari già estinte, tali, direbbe un certo linguista, sono le parole: superstiti bagliori di mondi perduti. E noi che le usiamo quotidianamente ci facciamo portatori di quelle storie arcaiche fatte della cura, dello stupore, delle paure, delle scoperte dei nostri padri. Le parole, infatti, sono il frutto del ciclopico lavoro di ordinazione di suoni e cose, del tempo eroico della sistematizzazione di segni e significati (attenzione, in ungherese antenato ed eroe sono quasi la stessa parola: ős, hős ! Una romantica conferma della grandezza dei progenitori inventori del linguaggio).
Significare, fare il segno, equivale ad evocare alcune realtà nell’immediato non disponibili. Quando emettiamo un segno linguistico come, che so, la parola „elefante”, rendiamo presente nell’immaginazione nostra e dell’interlocutore l’imponente mammifero proboscidato. Dato che per fortuna non basta pronunciare tale parola per farcelo materializzare addosso con tutto il suo peso, si può dire che parlando evochiamo delle realtà che in quel momento non sono presenti.
Seguiamo l’agglutinazione della parola ungherese jelentés:

JEL:                 „segno”
JEL-EN:           „presente” in quanto dà segno di presenza (lett.: „sul segno”)
JEL-EN-T:       „significare” perché rende presente (per il valore di -T cfr. puntata seconda)
JEL-EN-T-ÉS   la cosa resa presente, il „significato”.

Parola e significato viaggiano nel tempo e nello spazio e mettono in contatto mondi che si trovano altrove (MÁS-HOL) ed in altre epoche (MÁS-KOR). Oggi, che cercherò di confrontare il nostro mondo con il világ ungherese, dovrò immaginarmi che tipo di realtà gli antichi volevano evocare quando usavano tale espressione; quindi ora più che mai occorre tenere a mente che la struttura del mondo arcaico è in qualche modo sia spaziale che temporale, il dove-hol è mitologicamente anche un quando-kor e ciò sfugge alla comprensione di noi uomini moderni abituati a pensare attraverso l’asse cartesiano di una scienza che si preoccupa di evitare qualsiasi costruzione escatologica o trascendente. Ovviamente esistono, e sono tanti, quegli scienziati che ammettono il trascendente, ma mi sembra che nell’idea comune della gente oggi questo accostamento sia contraddittorio.
Quando diciamo „mondo”, quasi sempre ci riferiamo ad un’enorme palla girevole blu, marrone e bianca dotata di atmosfera e sappiamo che in qualche modo tale palla ci ospita tutti, uomini, bestie e stelle marine. Da bambino lo tenevo sulla scrivania: un mappamondo, che, come dice la parola stessa, è la mappatura del mondo, ergo il mondo è questo. Ma non sempre è stato così, quanto meno non nel pensiero antico; perciò, per arrivare al mondo originario, bisognerebbe sbucciare il lemma di tutti quegli strati di significato accumulatisi con il graduale sviluppo del sapere scientifico.
Un esempio facile è la parola „galassia”. Al giorno d’oggi una galassia è esclusivamente un grande insieme di soli legati da un sistema di gravitazione, ce ne presenta a dozzine il telescopio spaziale Hubble attraverso le stupefacenti istantanee che riesce a scattare: galassie a spirale, a spirale-barrate, irregolari e via dicendo. Sollevando la buccia temporale piú esterna, scopriamo che una volta la parola galassia aveva solo la forma singolare e pertanto indicava l’unica galassia conosciuta, ovvero la nostra, con tutte le stelle visibili da Terra ad occhio nudo. Togliamo un altro strato ed appare la galassia vista con gli occhi degli antichi, vale a dire la lattiginosa striscia di cielo che taglia di traverso i due emisferi: la via lattea, che oggi a causa dell’insensato abuso dell’illuminazione nei centri abitati è, ahimè, ridotta solo ad un vago racconto degli esperti. Il progresso ci ha inconsapevolmente fatto dimenticare che il nome di quelle remotissime e sconfinate città di stelle è lo stesso che gli antichi hanno scelto per indicare il primo nutrimento che riceviamo in questa vita: γάλαξ, „latte”, c’è forse qualcosa di più intimo? La storia si diverte a giocare coi significati e crea le sue callidae iuncturae semantiche, accostamenti che si rivelano vertiginosamente poetici.
Temo che con mondo le cose siano più complesse. Cosa significava, cosa rap-PRESENT-ava la parola „mondo”? Sfatiamo un falso mito, quello del mondo piatto. Temo che nessuno anticamente abbia mai pensato seriamente che il mondo fosse piatto. Vado a memoria: Ovidio parla chiaramente di globo e lo fa senza troppi proclami (Metamorfosi, I), come fosse cosa risaputa; già Platone secoli addietro nel Fedone fa parlare un morente Socrate del mondo come un orbe variopinto suddiviso in dodoci zone. A proposito: il pianeta non è piano, ma errante (dal verbo greco πλανάω, che significa „errare”, „vagabondare”) e tale anche l’ungherese BOLYG-Ó, da intendere „errante”, si vedano in proposito le espressioni bolyong „gironzolare”, bolygat a múltat „rimestare nel passato” e soprattutto l’operistico olandese volante bolygó hollandi. Gli uomini arcaici, anche proveniendo da culture tra loro molto lontane, si capiscono al volo: infatti sia per noi che per i magiari i pianeti sono gli astri vagabondi, quelli che si spostano a loro piacimento rispetto alle altre stelle che invece sono fisse.
figura 2
Correggetemi se sbaglio: più che un’antica concezione documentata, la piattezza del mondo mi sembra sia piuttosto un’invenzione moderna dovuta alla nostra difficoltà a figurarci gli antichi capaci di pensare in modo complesso, forse solo perché sprovvisti di una terminologia scientifica. È invece verosimile che l’antico mondo fosse l’unità di cielo e terra, l’intero creato concepito come un’unica entità sferica. Sebbene lo abbiano esaminato smembrandolo in parti e particole, gli uomini moderni hanno tuttavia deciso di chiamarlo universo perché mondo ormai appariva un poco equivoco o addirittura insensato, soprattutto quando si scoprì che lo spazio è profondo e che il cielo non esiste se non dalla Terra.
Quando una notizia si diffonde ovunque tra la gente, arriva ai quattro angoli del mondo, il che, alla luce di quanto detto in precedenza, potrebbe sembrare contraddittorio: come trovare gli angoli in una struttura sferica? Per sciogliere la difficoltà è necessaria qualche nozione di meccanica celeste e poi considerare una rappresentazione profondamente arcaica come quella postata qui poco sopra (figura 2).
Molte sono le interpretazioni iconografiche che si danno alle quattro figure messe agli angoli. In chiave cristiana c’è la portata universale del messaggio evangelico, ci direbbero alla prima lezione di storia dell’arte; però la questione è il senso di uno schema che già esisteva nella notte dei tempi, un’immagine che ritroviamo ad esempio nel libro di Ezechiele durante la visione del carro di Dio. Ebbene, non si tratta semplicemente dei quattro punti cardinali, o dei quattro elementi classici, come di solito ci viene spiegato - passatemelo - forse un po’ sommariamente. Questo è un codice iconografico molto tecnico che conferma il mondo concepito come unità di cielo e terra: le due intersezioni sulla volta celeste tra i circoli dell’equatore e dell’eclittica determinano ortogonalmente quattro punti, equinoziali e solstiziali, che periodicamente vanno ad occupare le costellazioni zodiacali a cui si riferiscono le quattro figure. È evidente che tale concezione non sia prettamente spaziale, ma, come si diceva più in alto, è fortissimo anche l’elemento temporale: i quattro angoli del mondo, detti anche pilastri della terra, sarebbero contemporaneamente l’ovunque ed il sempre che per l’uomo antico erano i segni inequivocabili della trascendenza.
Perdonatemi questo complicato excursus sui massimi sistemi, me lo sono concesso solo perché da quella carta da gioco, il tarocco linkato qui sopra, viene l’indizio che ci serve per togliere l’ultima buccia (è proprio il caso di dirlo) del mondo. Alcuni sapranno che tale carta è anche nota come la ruota della fortuna. Ebbene, la ruota ha un’unica prerogativa: girare. E di fatto quando cogliamo un succulento orbe dal ramo del melo e prima di addentarlo lo mondiamo, altro non facciamo che ruotarlo contro una lama. È molto plausibile una dipendeza di mondo con la radice sanscrita manth che significa „frullare, girare, divellere”. Il cielo è un manto di stelle, non tanto perché ci ricopre, ma perché gira! E che fascino che esercita la voce pramantha, il bastoncino usato per accendere il fuoco (Adalbert Kuhn), che, come ci insegnano le giovani marmotte, va sfregato facendolo ruotare. Non sarà tanto casuale che il previdente Prometeo, detto anche promantheùs, sia il ladro del fuoco (De Santillana). Un caso interessantissimo è il greco μανθάνω che classicamente significa imparare e che non si riesce a capire esattamente cosa caspita c’entri con la rotazione. Però chi ha letto Platone sa che l’anima, che è immortale, può accedere alle realtà eterne attraverso il suo peculiare movimento perpetuo e non generato e cioè la rotazione (Repubblica e Fedro).
Ancora sul mondo: in tedesco Welt, da wellan „girare”, confronta proprio il latino in vellere, volvere, l’italiana volta celeste.
Il mondo per la nostra cultura è l’immane armatura rotante che condensa ogni dimensione, lo spazio, il tempo e tutto ciò che è all’interno di esso. La nostra lingua ha scelto di nominarlo attraverso una delle sue caratteristiche, la rotazione: il mondo è la cosa rotante.
L’ungherese, lingua che pare autodefinirsi, risolve il problema del mondo in termini molto più semplici e precisi. Il mondo è semplicemente luce.
L’esistenza è luce, emessa o riflessa non importa, l’essere e la luce sono legate a doppio filo nella parola világ „mondo”, e tutto ciò che appartiene al mondo, a rigor di grammatica, dovrebbe essere VILÁG-OS, tuttavia világos non significa „del mondo”, bensì „chiaro, luminoso”. Interessante è come nei punti di contatto col nostro occidente, come ad esempio in ambito religioso, si formino delle curiose traduzioni di certe formule come ad esempio a világ világossága, la luce del mondo, che in ungherese suona evidentemente ripetitivo.
Nell’espressione idiomatica való világ, che significa „la realtà” riconosciamo il participio -Ó/-Ő della radice di essere VAL- che è senz’altro una variante del VIL- di luce, anzi, a conferma di ciò il cugino dell’ungherese, il finlandese, dice valo intendendo proprio luce! Beh, oggi való világ è soprattutto il nome del big brother ungherese, la cui profondità intellettuale è fuori dalla mia portata, perciò lascerò ad altri l’impresa di parlare di itt a lét a tét („qui è in gioco la sopravvivenza” il motto del celebre reality televisivo); per altri, invece, è la luce che esiste, definizione ungeherese di mondo.
A casa mia non si vede molta TV, in compenso si gioca molto a carte.
Ci sono passatempi che hanno il pregio di tenere allenate le capacità di strategia, di calcolo e di memoria, proprio come quel concentrato di sapienza arcaica che è il gioco della scopa.
«Paro, paro, tutto il mondo è paro»
Quante volte avrò sentito papà e nonno tenere a mente questa regola così importante per gli esiti della partita! E qui, i sognatori come noi, amano sentire la voce degli antenati che affidano il loro messaggio morale e cosmologico ad un momento di intimità familiare, quando, dopo pranzo, ci si riposa un attimo e ci si prepara per una scopetta. Forse sto di nuovo sentendo crescere l’erba, come diceva un mio professore di greco quando volevo trovare riferimenti improbabili. E però il mondo una volta era davvero paro: ad ogni esistenza, forza, azione o intenzione, ne doveva corrispondere sempre una uguale e contraria. Sia fisicamente che moralmente alla fine il conto di tutte le carte deve sempre essere paro. La creazione non aveva lasciato nulla al caso, niente era rimasto spaiato. Questo, forse, è il senso ultimo dell’enigmatica Giustizia di Parmenide, la Dike „che molto punisce”: non c’è posto per la misericordia nel mondo arcaico, la riduzione della pena più che ingiusta era considerata immonda, ovvero fuori dall’ordine della creazione; in una parola: dispara.

„Fatemi prendere sul serio il gioco della scopa!” Mi unisco anch’io all’invito di Erri De Luca (Il giorno prima della felicità) a cercare la saggezza nascosta nelle piccole cose di tutti i giorni.

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