domenica 6 aprile 2014

Cenabis bene apud me. Puntata sesta.

Dopo il delirio della puntata precedente, ho pensato fosse bene lasciar passare un po’ di tempo prima di piazzare un’altra bomba mediatica di simile portata.
In poche parole: la realtà (valóság) ha bisogno di essere elaborata e digerita, altrimenti la materia (anyag) può essere causa (ok) di qualche incidente (baleset) anche alla mente (ész) più elastica ed intelligente (okos). È giusto (igaz): ci vuole del tempo per costruire (épít) una più chiara (világos) e migliore (jobb) visione del mondo (világ) maturata alla luce (világosság) delle nuove scoperte. Pensiamo che solo da un salutare (egészséges) dubbio (kétség) possa nascere (születik) il vero (igazi) sapere (tudás).
Sì (igen), non vi arrabbiate, lo ammetto: del dubbio non ho ancora parlato, avete ragione. Vi dico solo che se uno è buono, due sarà cattivo, infatti sia in italiano (DUE) che in ungherese (KÉT) il secondo numero intero è la radice del dubbio. Ma non facciamo del dubbio una tragedia greca: come ci insegnano proprio i nostri prozii ellenici, la crisi è solo un primo stadio nel processo di maturazione della scelta (come è noto crisi viene da κρίνω: „scegliere, discernere”). Di sicuro alcuni di voi lettori saranno caduti nel dubbio: concedere ancora del tempo ai farneticanti raccapricci di questo blog?
Soppesate, ponderate, pensate, valutate. Cosa c’è sull’altro piatto della bilancia? L’adescamento su facebook dell’antica compagna di classe? L’invito a visionare la new entry della collezione di farfalle della modella ninfomane del piano di sopra?
Tenetevi forte, voi che delle farfalle non ve ne importa più di tanto: sto per iniziarvi all’eccitante e torbida forma mentale dell’Armonia Vocalica…
Avete scelto il blog, vero? Ricchioni. No, che avete capito, nel senso di „fatevi tutt’orecchi” per sentire quanto sto per dire, proprio come nel celebre carme in cui Catullo dice al suo convitato di „farsi nasone”, cioè „tutto naso” per gustare meglio la fragranza di un certo unguento… Ma che vi è saltato in mente, non sia mai! Lungi da qui le volgarità!
E infatti l’armonia vocalica è un fenomeno della lingua ungherese che, come vedremo, aiuta l’orecchio a discernere meglio le parole l’una dall’altra.
Ma andiamo per ordine: le vocali ungheresi sono tante, milioni di milioni. Dalla sinistra alla destra della tastiera:

Ö Ü Ó E U I O Ő Ú A É Á Ű Í

Questa babilonia vocalica la possiamo dividere, un po’ sommariamente, in vocali alte, cioè pronunciate vicino al palato:

Ö Ü E I (brevi)
Ő Ű É Í (lunghe)

e basse, cioè pronunciate vicino alla gola:

A O U (brevi)
Á Ó Ú (lunghe)

Spesso le parole ungheresi contengono vocali o solo alte o solo basse. Ad esempio l’impronunciabile parola „indimenticabilmente”: felejthetetlenül come si vede contiene solo vocali alte; o come l’altrettanto proibitiva parola „invisibilmente” che contiene solo quelle basse: láthatatlanul. Ed in questo modo, parlando, si hanno più possibilità di separare in modo corretto le parole degli enunciati che sovente sono detti velocemente.
Direte: «Riuscire a separare le parole non è mica tutto questo gran traguardo!»
Ma scherziamo?! Questa è una tappa obbligata se vogliamo capirci qualcosa! E poi provateci voi a separare le parole in una lingua che ha 14 (scritto: quattordici) vocali!
Dato che stiamo parlando di una lingua agglutinante, che, per definizione, funziona solo per aggiunta, quasi ogni singolo pezzettino avrà una versione con vocali alte ed una versione con vocali basse da armonizzare con la parola a cui si agglutina. Un paio di esempi:

-NAK/-NEK (di solito complemento di termine):
BARÁT-NAK              „all’amico”
ÜGYVÉD-NEK           „all’avvocato”

-NÁL/-NÉL (stato in luogo)
ÁLLOMÁS-NÁL         „presso la fermata”
ÉPÜLET-NÉL              „presso l’edificio”

A questo punto si ripropone il bivio di Ercole: o avete improvvisamente capito quanto fascino esercitino su di voi i lepidotteri oppure la cosa vi comincia ad intrigare.
A chi propende per la seconda possibilità lancio la scabrosa provocazione: solo questione di comprensione oppure l’armonia cela anche un qualche recondito significato?
Ebbene sì. Il significato c’è.
Prendiamo in esame i dimostrativi:

„Questo”: EZ               „Quello”: AZ

Ah, interessante! Questo con vocale alta, quello con vocale bassa. Lì per lì pensi sia un caso, poi però non trovi il telefonino ultrapiattissimo, lo cerchi, chiedi a qualcuno: «Ott van?» („È lì?”) e ti rispondono «Igen, itt van!», sì, è qui, vieni a prenderlo! Ah ecco:

„Qui”: ITT                               „Lì”: OTT

E così ti vengono in mente anche altre cose, tipo:

„Da qui”: INNEN                     „Da lì”: ONNAN
„Verso qui”: IDE                      „Verso lì”: ODA
„In questo modo”: ÍGY             „In quel modo”: ÚGY
„Tanto così”: ENNYIRE           „Tanto in quel modo lì”: ANNYIRA

È evidente che le vocali alte portano in nuce il significato di vicinanza, mentre quelle basse di lontananza. Che geniale stratagemma che ha escogitato la lingua dei Magiari! Da una vocale si riesce a capire se il referente è vicino o lontano rispetto a chi parla. Beh, però questa cosa vale solo per le parti del discorso pronominali, mi dicevo: mica può estendersi anche a verbi e sostantivi, va’ là!
Tanta era la sicumera prima di imbattermi nel mito di ÉR.
No, non voglio parlare di metempsicosi etimologica, anche se mi sembra che certe parole vengano dimenticate e poi tornino a nuova vita reincarnandosi in altri significati, in altre lingue.
ÉR è una parola fantastica, un pezzo archeologico che ha resistito agli attacchi della latinizzazione, dei tedeschi, dei turchi, dei russi e dei blue jeans, è soprattutto un verbo ed è la radice di tantissime ed altrettanto fantastiche parole di ogni tipo: è tutto questo, nonché la versione dalle vocali alte della parola ÁR.
Generalmente ÉR indica un flusso, uno scorrere in avvicinamento. Se funge da sostantivo significa „ruscello”, ma anche „vena”, i vasi sanguigni, lo scorrimento a noi più vicino, anzi, interno! Abbiamo accennato alla radice di essere in -V-, perciò V-ÉR è l’essere che scorre, il sangue. Da ÉR si genera l’arrivo, il raggiungimento: oda érsz? „ci arrivi lì?”. EL-ÉR: „raggiungere qualcosa”. ÉR-KEZ-ÉS è la parola che dobbiamo seguire se vogliamo andare a prendere qualcuno in stazione o in aeroporto. Commovente è il verbo ért che significa „capire”. E cosa c’entra capire? Se non ci arrivate ve lo dico io: „io capisco” in magiaro sembra essere un passato:

értem: ÉR („arrivare”, „raggiungere”) - T (segno del passato) - EM („io”)

Se capisco è perché ho raggiunto la comprensione, insomma: ce n’ho messo di tempo, però alla fine ci sono arrivato! Del resto non è un caso isolato che un passato prenda significato presente, basti pensare ai difettivi del latino come odi, memini, o al greco οἷδα: „ho visto” e dunque „so”.
Il flusso in allontanamento ÁR genera ÁR-AM: „corrente” anche intesa come elettricità, ma anche ÁR-AM-LAT, la corrente di un fiume o quella del vento che si porta via gli aquiloni. Lo scorso giugno l’Ungheria ha passato alcuni giorni in stato di calamità naturale per la piena del Danubio che in alcune zone si è trasformata purtroppo in vera e propria alluvione, un disastro, sui giornali si parlava di ÁR-VÍZ dove víz significa „acqua”. Non posso tacere, a proposito dell’alluvione del 2013, il senso di responsabilità che hanno mostrato gli ungheresi e la lezione di civiltà che ho ricevuto in quei giorni. Ho visto uomini, donne, ragazzi, pensionati, addirittura persone diversamente abili lavorare insieme alla febbrile costruzione degli argini temporanei. Erano tutti lì ad aiutare, hanno lavorato senza sosta per tre giorni e due notti ed hanno salvato le case a ridosso del fiume. Non si sono sentiti atti di sciacallaggio di sorta.
La civiltà è un bene che non ha prezzo.

Il prezzo è il flusso di valore (ÉR-TÉK) in uscita per ottenere un valore di altro tipo. In ungherese si dice ÁR.
E ci sono cose, come una vecchia amicizia, che valgono oro („egy régi barát aranyat ér”). Il verbo ér esprime dunque il valore in entrata.
Altre espressioni collegate:
megéri („conviene”), érdemel („meritare”), -érett o comunemente -ért (complemento di fine), érett („maturo”), érettségi („esame di maturità”), értékel („valutare”).

Bon, visto che ormai ho preso confidenza con certe potenzialità del blog, vi lascio una canzoncina ungherese con cui provare a distinguere le parole. Volendo si può seguire il testo nel video. Allora fatevi tutt’orecchi, tutt’occhi e anche tutto naso, dato che il titolo del brano è „Profumo”!
(Kedves Iwett117, köszönöm szépen, hogy felraktad ezt a videót a net-re! Remélem, hogy nem baj, ha ide raktam én is!)



Ciao a tutti, grazie della pazienza e alla prossima!

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