sabato 8 marzo 2014

Uno sano. Puntata quarta.

Qualcuno storcerà il naso, ma è arrivato il momento di soffermarmi un attimo sul concetto di lingua agglutinante. Forse non sarà una mossa che mi farà guadagnare in termini di popolarità, ma, con rispetto parlando, della popolarità me na futto. Se aspirassi a scrivere un blog famoso, per tema avrei scelto qualcosa di meglio, del tipo: le prove inconfutabili dell’orgasmo femminile nascoste nei dossier segreti del Vaticano o robe di questo raffinato genere.
E invece il tema che ho scelto è la lingua ungherese e perciò ora mi metto comodo comodo e distruggo ogni sogno di fama, parlando, nei miei limiti, delle lingue agglutinanti, ovvero le lingue che incollano.
Fondamentalmente in tali lingue ogni morfo (ovvero la minima unità di significato) di solito contiene un unico significato; questo causa spesso catene morfologiche più lunghe nella formazione delle parole rispetto a quelle delle lingue flessive. Esempio: nella parola ungherese tudtam possiamo distinguere tre differenti morfi: TUD-T-AM, il primo porta il significato di sapere, il secondo di passato, il terzo di prima persona singolare. Il suo corrispettivo italiano seppi è divisibile in soli due morfi: la prima persona singolare è data da -I, mentre SEPP- contiene contemporaneamente sia il significato di sapere sia quello di passato, generato dal cambio di vocale interna al tema -sap-/-sepp-. Questo cambio che riguarda generalmente le vocali dentro la radice di un verbo è chiamato apofonia e, che io sappia, è un fenomeno assente nelle lingue agglutinanti come l’ungherese, il giapponese, il sumero, l’etrusco,…., proprio perché implica una sovrapposizione di significati in un unico morfo. E perciò l’apofonia è uno dei tratti distinitivi delle lingue flessive come l’italiano, l’inglese (es.: take/took), il tedesco (es.: fahr-/fuhr-), il latino (capio/cēpi), il greco (-λειπ-/-λιπ-, vedi anche nella puntanta seconda quando si è ricordato -γεν-/-γον-).
Queste differenze non intaccano solo le parti verbali, ma anche quelle nominali. Se in italiano da una ragazza ne vogliamo ottenere due perché two gust is megl che one, basta sostituire la -A con il morfo del plurale femminile -E ed il gioco è fatto; in ungherese, invece, non si va per sostituzione, qui la regola del gioco è che si può solo aggiungere: a LÁNY (ragazza) si attaccherà il segno del plurale -K arrotondato da una vocale eufonica ed avremo LÁNY-OK. Se rivolgiamo una parola ad alcune ragazze e le facciamo diventare complemento di termine ancora dobbiamo aggiungere quella che da noi è una preposizione e che qui, visto che si deve sempre aggiungere, è una postposizione: LÁNY-OK-NAK.
Vediamo un altro esempio tanto per avere un’idea più completa ed inquietante.
Quando si prende un sobrio aperitivo ungherese, un’innocentissima pálinka a stomaco vuoto, si dice: egészségedre! „alla tua salute!”, o se si è in molti: egészségetekre! „alla vostra salute”. Beh, è evidente che si tratta di un augurio ironico, cinquanta gradi alcolici che si sommano ai succhi gastrici secondo me non possono essere altro che un dolce preludio alla cirrosi epatica… Però per esperienza personale posso dire che questo rituale favorisce un immediato sviluppo delle competenze linguistiche e socioculturali.
Facciamola a pezzetti, dunque, questa salute:

EG-                                radice del numero „uno”(EGY)
EG-ÉSZ                          „tutt’uno, integro, sano”
EG-ÉSZ-SÉG                  „l’essere tutto intero” e quindi „la salute”
EG-ÉSZ-SÉG-ETEK        „la vostra salute”
EG-ÉSZ-SÉG-ETEK-RE „alla vostra salute”.

Ecco dunque svelato il mistero linguistico della salute: la facoltà (ÉSZ) di essere uno (EG-) e cioè „sano”. E ora, per chi ha avuto la tenacia di seguirmi sino a qui, si aprono i mondi.
Sí, perché tutto comincia dall’uno, l’unità è l’inizio di ogni cosa e di conseguenza anche nella lingua l’uno è una partenza formidabile perché tutto ciò che è intero è buono, è positivo, è vero! Il cessare dell’esistenza è in realtà lo sgretolarsi delle particelle di composizione. La materia continua ad esistere, ma l’identità dell’oggetto no, perché ridotto in particelle. Resterebbe la sostanza, direbbe un tale stagirita, ma la forma, che è ciò che rende una cosa tale, sarebbe perduta. Se sgretolassimo una molecola di sale, non avremo più sale, ma sodio e cloro: non ce la condiamo l’insalata. Separando il basilico dal pomodoro, l’olio dagli spaghetti otterremmo basilico, pomodoro, olio e spaghetti ed annulleremmo l’esistenza di quel composto di poesia pura che è un bel piatto di pasta asciutta. A ben vedere ciò che è sano è positivo, e questo in ungherese è evidente: come detto nella puntata precedente si dice IG-EN, laddove IG è la versione di uno con le vocali basse (che hanno significato di lontananza rispetto a chi parla) seguita dal caso superessivo (stare sopra) con significato avverbiale: significa interamente e dunque positivo, affermativo. Dire igen equivale a riconoscere l’esistenza di un'entità differente dal soggetto: sì, questa cosa è vera perché è tutt’una.
Ma siamo solo all’inizio! Diamo all’uno un possessivo, facciamolo diventare il suo tutt’uno: otteniamo IG-E e cioè la parola che è tutt’uno con il significato! Roba da far scemunire i nominalisti medievali! Che cosa avrebbe scritto Abelardo se avesse saputo un pò d’ungherese!
Andiamo avanti. IG-ÉR e cioè la parola IG (il tutt’uno con la cosa) che arriva (ÉR), e quindi che si compie: abbiamo fatto il verbo promettere.
Beh, a questo punto dovrei fermarmi per dare tempo al lettore di digerire queste prime sconvolgenti rivelazioni.
Fatto?
Bene. La parola che arriva a compimento, la promessa, è tale solo se è parola vera. Altrimenti sarebbe una bugia. Infatti vero si dice igaz e cioè IG-AZ, quello intero, perché az è il dimostrativo di lontananza quello. È scorretto dire IG-EZ („questo intero”) perché si presuppone che si predichi la veridicità (leggasi esistenza) di qualcosa che è altro rispetto al soggetto, e quindi se ne marca la distanza, diciamo l’alterità.
Qualcuno nella parola greca verità ci vede la radice di nascondersi -ληθ- (cfr. latino lateo) preceduta dall’alfa privativo, per cui alètheia significherebbe che non si nasconde. Il mondo latino, invece, ci insegna che la verità bisognerebbe spogliarla completamente, renderla nuda, ma che sia anche piuttosto pudica… Mi viene in mente un certo dipinto di Botticelli. Vale la pena dargli un’occhiata: 
Quanto è fondamentale la verità nell’esercizio del giudizio! E quanto è difficile arrivare alla verità in certe occasioni. Pare secondo la tradizione che Re Salomone sia stato l’uomo più giusto mai vissuto sulla terra. Non per nulla gli si è attribuita la stesura del libro biblico della Sapienza, che altro non è che la conoscenza della verità. Certo che però non basta conoscere la verità per essere un giusto giudice, bisogna anche amare la giustizia, metterla, quindi, al primo posto nella scala dei valori. Infatti un giudice che conosce bene la verità, se non ama la giustizia, cade facilmente nella rete della corruzione. Ecco che in apertura del Libro della Sapienza leggiamo:

Diligite iustitiam qui iudicatis terram” (Sap. I, 1)

che tradotto suonerebbe qualcosa come: „dovete amare la giustizia voi tutti che avete l’autorità di giudicare gli uomini!” Il nostro mondo, o meglio, la nostra società forse troppo spesso ci suggerisce che giustizia e verità siano due valori distinti, spesso lontani. A volte la verità ci appare ingiusta, o la giustizia ci appare non reale. Amore un tale bene, un altro il vero recita un sonetto di mia memoria.
In ungherese i significati di giustizia e verità sono racchiusi in un'unica parola IG-AZ-SÁG, senza distinzione, come a voler ricordare che puó, deve esistere una vera Giustiza, e la Verità per essere tale deve sempre essere giusta.
Si tratta di un vero e proprio atto di fede che gli antichi Magiari hanno regalato a tutti coloro che hanno la pazienza di ascoltarli.

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