E invece il tema che
ho scelto è la lingua ungherese e perciò ora mi metto comodo comodo e distruggo
ogni sogno di fama, parlando, nei miei limiti, delle lingue agglutinanti, ovvero
le lingue che incollano.
Fondamentalmente in
tali lingue ogni morfo (ovvero la minima unità di significato) di solito
contiene un unico significato; questo causa spesso catene morfologiche più
lunghe nella formazione delle parole rispetto a quelle delle lingue flessive. Esempio:
nella parola ungherese tudtam possiamo
distinguere tre differenti morfi: TUD-T-AM, il primo porta il significato di sapere, il secondo di passato, il terzo di prima persona
singolare. Il suo corrispettivo italiano seppi
è divisibile in soli due morfi: la prima persona singolare è data da -I, mentre
SEPP- contiene contemporaneamente sia il significato di sapere sia quello di passato,
generato dal cambio di vocale interna al tema -sap-/-sepp-. Questo cambio che
riguarda generalmente le vocali dentro la radice di un verbo è chiamato apofonia e, che io sappia, è un fenomeno
assente nelle lingue agglutinanti come l’ungherese, il giapponese, il sumero,
l’etrusco,…., proprio perché implica una sovrapposizione di significati in un
unico morfo. E perciò l’apofonia è uno dei tratti distinitivi delle lingue
flessive come l’italiano, l’inglese (es.: take/took), il tedesco (es.:
fahr-/fuhr-), il latino (capio/cēpi), il greco (-λειπ-/-λιπ-, vedi anche nella
puntanta seconda quando si è ricordato -γεν-/-γον-).
Queste differenze
non intaccano solo le parti verbali, ma anche quelle nominali. Se in italiano
da una ragazza ne vogliamo ottenere due perché two gust is megl che one, basta sostituire la -A con il morfo del
plurale femminile -E ed il gioco è fatto; in ungherese, invece, non si va per
sostituzione, qui la regola del gioco è che si può solo aggiungere: a LÁNY (ragazza) si attaccherà il segno del
plurale -K arrotondato da una vocale eufonica ed avremo LÁNY-OK. Se rivolgiamo una
parola ad alcune ragazze e le facciamo diventare complemento di termine ancora
dobbiamo aggiungere quella che da noi è una preposizione e che qui, visto che
si deve sempre aggiungere, è una postposizione:
LÁNY-OK-NAK.
Vediamo un altro
esempio tanto per avere un’idea più completa ed inquietante.
Quando si prende
un sobrio aperitivo ungherese, un’innocentissima pálinka a stomaco vuoto, si dice: egészségedre! „alla tua salute!”, o se si è in molti: egészségetekre! „alla vostra salute”.
Beh, è evidente che si tratta di un augurio ironico, cinquanta gradi alcolici
che si sommano ai succhi gastrici secondo me non possono essere altro che un
dolce preludio alla cirrosi epatica… Però per esperienza personale posso dire
che questo rituale favorisce un immediato sviluppo delle competenze
linguistiche e socioculturali.
Facciamola a
pezzetti, dunque, questa salute:
EG- radice del numero „uno”(EGY)
EG-ÉSZ „tutt’uno, integro, sano”
EG-ÉSZ-SÉG „l’essere tutto intero” e quindi „la salute”
EG-ÉSZ-SÉG-ETEK „la
vostra salute”
EG-ÉSZ-SÉG-ETEK-RE
„alla vostra salute”.
Ecco dunque
svelato il mistero linguistico della salute: la facoltà (ÉSZ) di essere uno (EG-) e cioè „sano”. E ora,
per chi ha avuto la tenacia di seguirmi sino a qui, si aprono i mondi.
Sí, perché tutto
comincia dall’uno, l’unità è l’inizio
di ogni cosa e di conseguenza anche nella lingua l’uno è una partenza
formidabile perché tutto ciò che è intero è buono,
è positivo, è vero! Il cessare dell’esistenza è in realtà lo sgretolarsi delle
particelle di composizione. La materia continua ad esistere, ma l’identità dell’oggetto
no, perché ridotto in particelle. Resterebbe la sostanza, direbbe un tale
stagirita, ma la forma, che è ciò che rende una cosa tale, sarebbe perduta. Se sgretolassimo
una molecola di sale, non avremo più sale, ma sodio e cloro: non ce la condiamo
l’insalata. Separando il basilico dal pomodoro, l’olio dagli spaghetti
otterremmo basilico, pomodoro, olio e spaghetti ed annulleremmo l’esistenza di
quel composto di poesia pura che è un bel piatto di pasta asciutta. A ben
vedere ciò che è sano è positivo, e questo in ungherese è evidente: come detto
nella puntata precedente sì si dice IG-EN,
laddove IG è la versione di uno con
le vocali basse (che hanno significato di lontananza rispetto a chi parla) seguita
dal caso superessivo (stare sopra) con significato avverbiale: sì significa interamente e dunque positivo, affermativo. Dire igen equivale a riconoscere l’esistenza
di un'entità differente dal soggetto: sì, questa cosa è vera perché è tutt’una.
Ma siamo solo all’inizio!
Diamo all’uno un possessivo,
facciamolo diventare il suo tutt’uno:
otteniamo IG-E e cioè la parola che è
tutt’uno con il significato! Roba da far scemunire i nominalisti medievali! Che
cosa avrebbe scritto Abelardo se avesse saputo un pò d’ungherese!
Andiamo avanti.
IG-ÉR e cioè la parola IG (il tutt’uno con la cosa) che arriva (ÉR), e quindi che
si compie: abbiamo fatto il verbo promettere.
Beh, a questo
punto dovrei fermarmi per dare tempo al lettore di digerire queste prime sconvolgenti
rivelazioni.
Fatto?
Bene. La parola
che arriva a compimento, la promessa, è tale solo se è parola vera. Altrimenti
sarebbe una bugia. Infatti vero si dice igaz
e cioè IG-AZ, quello intero, perché az è il dimostrativo di lontananza quello. È scorretto dire IG-EZ („questo intero”) perché si presuppone che
si predichi la veridicità (leggasi esistenza) di qualcosa che è altro rispetto al soggetto, e quindi se
ne marca la distanza, diciamo l’alterità.
Qualcuno nella
parola greca verità ci vede la radice
di nascondersi -ληθ- (cfr. latino lateo) preceduta dall’alfa privativo,
per cui alètheia significherebbe che non si nasconde. Il mondo latino,
invece, ci insegna che la verità bisognerebbe spogliarla completamente,
renderla nuda, ma che sia anche piuttosto pudica… Mi viene in mente un certo
dipinto di Botticelli. Vale la pena dargli un’occhiata:
Quanto è fondamentale
la verità nell’esercizio del giudizio! E quanto è difficile arrivare alla verità
in certe occasioni. Pare secondo la tradizione che Re Salomone sia stato l’uomo
più giusto mai vissuto sulla terra. Non per nulla gli si è attribuita la
stesura del libro biblico della Sapienza, che altro non è che la conoscenza
della verità. Certo che però non basta conoscere la verità per essere un giusto
giudice, bisogna anche amare la giustizia, metterla, quindi, al primo posto
nella scala dei valori. Infatti un giudice che conosce bene la verità, se non
ama la giustizia, cade facilmente nella rete della corruzione. Ecco che in
apertura del Libro della Sapienza leggiamo:
„Diligite iustitiam qui iudicatis terram”
(Sap. I, 1)
che tradotto
suonerebbe qualcosa come: „dovete amare la giustizia voi tutti che avete l’autorità
di giudicare gli uomini!” Il nostro mondo, o meglio, la nostra società forse
troppo spesso ci suggerisce che giustizia e verità siano due valori distinti,
spesso lontani. A volte la verità ci appare ingiusta, o la giustizia ci appare
non reale. Amore un tale bene, un altro
il vero recita un sonetto di mia memoria.
In ungherese i significati di giustizia e verità sono racchiusi in un'unica parola IG-AZ-SÁG, senza
distinzione, come a voler ricordare che puó, deve esistere una vera Giustiza, e
la Verità per essere tale deve sempre essere giusta.
Si tratta di un
vero e proprio atto di fede che gli
antichi Magiari hanno regalato a tutti coloro che hanno la pazienza di
ascoltarli.
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