lunedì 1 settembre 2014

Questione di misure. Puntata settima.

La prendo alla lontana e per parlare di argomenti magiari traggo spunto da una divagazione occorsa nel vasto mare delle nostre origini su una navicella elegante, sapientemente assemblata con legno italico, etrusco e greco: la poesia del massimo autore della latinità Publio Virgilio Marone.
In chiusura di poema, troviamo nelle Georgiche l’unico passo di tutta la produzione virgiliana in cui l’autore rivela il proprio nome: Vergilium me (Georg. IV, 563). Una firma, l’unica firma di Virgilio: neanche l’Eneide può pregiarsi di tanta considerazione da parte del poeta. Un motivo in più per ritenere che i quattro libri delle Georgiche siano altro che un raffinato manuale del buon contadino. Si è parlato di pessimismo virgiliano, l’uomo e l’ineluttabile suo destino di sofferenza, si è scritto del tono religioso o, se si preferisce, iniziatico del libro quarto, quello dedicato all’apicoltura e molto altro ancora. Poco, invece, si trova sulle ricorrenze numeriche di certe parole all’interno dell’opera. Mi riferisco, ad esempio, al fatto che per qualche motivo la parola Maecenas curiosamente occorra solo ai versi 2 - 41 - 41 - 2 in figura di chiasmo nel corso dei quattro volumi. Un dato che, è vero, in sé non dice tanto, ma che allo stesso tempo lascia poco spazio alla casualità: di sicuro Virgilio era uno che le parole non le inseriva nel testo in modo casuale. A quanto ne so, siamo in pochi ad aver notato queste occorrenze, fa parte della compagnia anche il più grande ammiratore di Virgilio, Dante, il quale con fare sibillino afferma che la grande poesia lega numero con rima (Convivio, I, 13, 6). Beh, oltre non dico, ma non perché tacere è bello, ma solo per timore di dare informazioni errate su una materia per me ancora incerta ancorché molto affascinante.
Mi trovavo così un bel mattino a ripercorrere un brano virgiliano contenuto nel primo libro delle Georgiche denominato dal curatore della mia edizione „l’almanacco del contadino”, e mi accorsi che la parola mondo viene usata in modo inusuale, anzi, inaspettato, almeno per chi si è perso la puntata quinta di questo blog. Non è così pacifico che la fascia zodiacale sia detta „del mondo” (I, v. 231), semmai „del cielo”, né si può tanto soprassedere ad un „globo che verso la Scizia sale dritto per poi abbassarsi declinando verso la Libia” (v. 241 e seguenti) che, così come tradotto dal curatore, riesco difficilmente a figurarmi. Sembrano affermazioni prive di senso, goffe, che presuppongono la misconoscenza o una certa incapacità di Virgilio. A meno che non restituiamo alla parola mondo il suo significato originario connesso alla rotazione terrestre giornaliera: l’asse polare. In tal caso, l’intero passo si rivela pregno di significato e preciso in modo direi scientifico: è la presentazione delle conseguenze visuali della volta celeste con lo spostarsi dell’osservatore da una latitudine polare (la Scizia) ad una equatoriale (a sud della Libia). Il primo osservatore vedrà un mondo arduo, vedrà cioè l’asse polare che si staglia perpendicolare all’orizzonte, il secondo osservatore invece lo vedrà premere sull’orizzonte quasi fosse schiacciato. Chiudo qui questo contributo fuori sede dato alla puntata quinta (Non si è fermato mai un momento). Lo spunto di collegamento con l’ungherese, invece, mi venne al verso 231, con l’espressione certis dimensum partibus orbem tradotta in „orbita divisa in ben determinate sezioni”. Tale traduzione vuole venire in soccorso del lettore non addetto ai lavori; noi, però, non possiamo dimenticare il campo semantico di dimensum, che è quello di misura. Dimensione è ciò che si può misurare, definire. Nel nostro caso si tratta del participio del verbo dimetior (misurare) e riferisce alle misure angolari che determinano le cinque zone climatiche del pianeta. La vastità che sfugge all’umana comprensione è invece non misurabile, è IN-MENS-A, incommensurabile.
La mensura, il metro greco, il modus latino, il messen tedesco trovano un’imprevista somiglianza fonetica col lontanissimo ungherese MÉR: quanto meno curiosa è la costante presenza della labionasale, che mi lascia sognare un raffronto con l’accusativo del pronome di prima persona singolare (me, με, mich, engemet), come a dire: l’uomo è misura di tutte le cose, Mench und Menge, ed io stesso sono la prima unità di misura che posso utilizzare per figurarmi ciò che mi circonda.
Da MÉR si formano molte parole interessanti, prime tra tutte MÉR-ET, la quantità misurata, e MÉR-TÉK, l’unità di misura.
Altrettanto interessanti sono mérnök e mértan: l’ingegnere è l’uomo delle misure, laddove la particella -NÖK/-NOK indica una persona che sa gestire qualcosa, come ad esempio il generale (mil.) è l’uomo che dirige l’accampamento TÁBOR-NOK, oppure l’agente (comm.) è l’uomo degli affari ÜGY-NÖK; il morfo -TAN- indica lo studio o la presa di coscenza di qualcosa (TAN-UL, studiare, prendere coscenza, TAN-ÍT, insegnare, TAN-Ú, il testimone, ed infiniti altri casi) e con esso si forma lo studio delle misure MÉR-TAN, che è sicuramente più esatto della nostra geometria, la quale dice di essere le misure della terra, ma in realtà è uno studio astratto di casi meramente teorici.
Se in italiano è chiarissimo che bilancia è bi-lance, cioè doppio piatto, il termine ungherese mérleg ha qualcosa di enigmatico nel secondo morfo -LEG, che, stando al mio dizionario, è utilizzato in modo errato. È vero: di solito assume valore avverbiale (fizikailag, esetleg, anyagilag, elvileg,…), ma è altrettanto vero che mérleg non è l’unico esempio di sostantivo con tale suffisso: átlag ed egyenleg sono anch’essi sostantivi ed hanno curiosamente significati in qualche modo legati alle misure: media (mat.) e somma, ammontare di un credito. Pare che questi nomi in -leg/-lag siano comparsi dopo la sistematizzazione della lingua ungherese (la cosiddetta Nyelvújítás) avvenuta alla fine del Settecento per opera dei grandi letterati magiari dell’epoca sotto la guida di Ferenc Kazinczy. Non è che prima si pesasse solo a mano: bilancia si diceva mérettyű (lett.: „dispositivo misuratore”) oppure mércső („tubo-misura”), ma poi tali parole furono sottoposte ad un processo di pulizia linguistica del tutto intenzionale. Forse questo -leg se lo sono inventato di sana pianta, ma stento a crederlo. Forse su questa scelta ha influito la formazione del superlativo, che ha bisogno appunto del -leg-, e, si sa, comparativi e superlativi si basano sul confronto, sulle differenze,… Bah, lasciamola stare ’sta bilancia, che è appena ricominciato il campionato di calcio e non voglio perdermi alcun MÉR-KŐZ-ÉS, vale a dire partita, l’evento sportivo in cui due squadre oseranno misurarsi con grande agonismo. Attenzione a non confondere MÉR con MER. L’uno misura, l’altro osa. E chi osa, lo fa sempre avendo misurato i rischi e gli eventuali benefici, altrimenti non sarebbe coraggio, ma sciocca imprudenza.
L’origine di questo MÉR pare sia ignota. Personalmente mi piace pensarlo come una risposta, la risposta numerica alla puntuale domanda Mit ÉR? „quanto vale?” Su ÉR vedere puntata precedente.
La nostra misura, invece, quella al di qua del Danubio, è la misura che si usava per tenere conto del tempo che scorre, e, come dice il saggio, il tempo è il numero del movimento secondo il prima e secondo il poi degli eventi che hanno luogo nella volta celeste: il sole e soprattutto la luna. E infatti dentro mensura c’é mensis il mese latino, originariamente lunare, la più antica e più sacra unità di misura del tempo, quella che per gli antichi era la radice dei cicli della vita e della riproduzione. Se parrà arduo legare in italiano luna a mese, sarà scontato in tedesco legare Mond a Monate, a moon il month inglese, a μήνη il μήν greco, e, dato che vi risparmio l’inflazionatissimo esempio di mens-truazioni, lascio un posticino in questa educata compagnia lunare allo sboccato mona.
Come è noto, ci sono differenti tipi di mese lunare. I due tipi più importanti sono quello detto sinodico, di 29 giorni e mezzo, che si basa sul movimento della luna rispetto al sole (le fasi lunari) e quello siderale, di circa 27 giorni e sette ore, che si basa, invece, sul movimento della luna rispetto alle stelle.
L’antico mese ungherese è indubbiamente il mese lunare sinodico: la definizione di esso è contenuta nello stesso vocabolo: hónap, dove HÓ è luna e NAP è sole.
Signori, io una spiegazione migliore al concetto di mese lunare sinodico non la saprei trovare: la parola ungherese contiene tutto ciò che c’è da sapere. Dire mese non è esaustivo, dire lunazione non basta: c’è bisogno anche del sole, perché 29,5 giorni ci vogliono perché la luna da un allineamento col sole ritorni al prossimo allineamento. Aggiungo anche che NAP significa tanto sole quanto giorno, ed a buon vedere le due cose non sono separabili. A buonissimo vedere, abitando sulla luna un giorno corrisponderebbe esattamente al nostro mese lunare sinodico, un HÓ-NAP, un giorno lunare… (!!!!!)
Sono allibito.

Così farneticando oso dunque dire che l’archetipo linguistico del concetto di misura è la luna. E allora cosa succederebbe se per un attimo immaginassimo che quel Vergilium me al verso 563 di Georg. IV indicasse proprio una misura lunare? Scopriremmo che 563 mesi lunari siderali sono quasi 42 anni, proprio l’età di Virgilio nel 28 a.C., quando, secondo storici e filologi, finì di comporre le Georgiche: infatti, come è noto, il poeta nacque sub Iulio ancor che fosse tardi nel 70 a.C.
Avrete senz’altro riconosciuto la citazione dantesca: Inferno, canto primo, verso…  Il numero del verso non lo ricordo, andate a controllare.


Buona giornata a voi tutti che avete la pazienza di leggere. 

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