La prendo alla
lontana e per parlare di argomenti magiari traggo spunto da una divagazione
occorsa nel vasto mare delle nostre origini su una navicella elegante,
sapientemente assemblata con legno italico, etrusco e greco: la poesia del
massimo autore della latinità Publio Virgilio Marone.
In chiusura di
poema, troviamo nelle Georgiche l’unico passo di tutta la produzione virgiliana
in cui l’autore rivela il proprio nome: Vergilium
me (Georg. IV, 563). Una firma, l’unica firma di Virgilio: neanche l’Eneide
può pregiarsi di tanta considerazione da parte del poeta. Un motivo in più per
ritenere che i quattro libri delle Georgiche siano altro che un raffinato manuale
del buon contadino. Si è parlato di pessimismo
virgiliano, l’uomo e l’ineluttabile suo destino di sofferenza, si è scritto
del tono religioso o, se si preferisce, iniziatico del libro quarto, quello
dedicato all’apicoltura e molto altro ancora. Poco, invece, si trova sulle
ricorrenze numeriche di certe parole all’interno
dell’opera. Mi riferisco, ad esempio, al fatto che per qualche motivo la parola
Maecenas curiosamente occorra solo ai
versi 2 - 41 - 41 - 2 in figura di chiasmo nel corso dei quattro volumi. Un
dato che, è vero, in sé non dice tanto, ma che allo stesso tempo lascia poco
spazio alla casualità: di sicuro Virgilio era uno che le parole non le inseriva
nel testo in modo casuale. A quanto ne so, siamo in pochi ad aver notato queste
occorrenze, fa parte della compagnia anche il più grande ammiratore di
Virgilio, Dante, il quale con fare sibillino afferma che la grande poesia lega numero con rima (Convivio, I, 13,
6). Beh, oltre non dico, ma non perché tacere
è bello, ma solo per timore di dare informazioni errate su una materia per
me ancora incerta ancorché molto affascinante.
Mi trovavo così un
bel mattino a ripercorrere un brano virgiliano contenuto nel primo libro delle
Georgiche denominato dal curatore della mia edizione „l’almanacco del
contadino”, e mi accorsi che la parola mondo
viene usata in modo inusuale, anzi, inaspettato, almeno per chi si è perso la
puntata quinta di questo blog. Non è così pacifico che la fascia zodiacale sia
detta „del mondo” (I, v. 231), semmai „del cielo”, né si può tanto soprassedere
ad un „globo che verso la Scizia sale dritto per poi abbassarsi declinando
verso la Libia” (v. 241 e seguenti) che, così come tradotto dal curatore,
riesco difficilmente a figurarmi. Sembrano affermazioni prive di senso, goffe, che presuppongono la misconoscenza o una certa incapacità di
Virgilio. A meno che non restituiamo alla parola mondo il suo significato originario connesso alla rotazione
terrestre giornaliera: l’asse polare. In tal caso, l’intero passo si rivela pregno
di significato e preciso in modo direi scientifico: è la presentazione delle
conseguenze visuali della volta celeste con lo spostarsi dell’osservatore da
una latitudine polare (la Scizia) ad una equatoriale (a sud della Libia). Il primo
osservatore vedrà un mondo arduo,
vedrà cioè l’asse polare che si staglia perpendicolare all’orizzonte, il
secondo osservatore invece lo vedrà premere sull’orizzonte quasi fosse
schiacciato. Chiudo qui questo contributo
fuori sede dato alla puntata quinta (Non si è fermato mai un momento). Lo
spunto di collegamento con l’ungherese, invece, mi venne al verso 231, con
l’espressione certis dimensum partibus
orbem tradotta in „orbita divisa in ben determinate sezioni”. Tale
traduzione vuole venire in soccorso del lettore non addetto ai lavori; noi,
però, non possiamo dimenticare il campo semantico di dimensum, che è quello di misura.
Dimensione è ciò che si può misurare, definire. Nel nostro caso si tratta del
participio del verbo dimetior
(misurare) e riferisce alle misure angolari che determinano le cinque zone
climatiche del pianeta. La vastità che sfugge all’umana comprensione è invece
non misurabile, è IN-MENS-A, incommensurabile.
La mensura, il metro greco, il modus
latino, il messen tedesco trovano
un’imprevista somiglianza fonetica col lontanissimo ungherese MÉR: quanto meno
curiosa è la costante presenza della labionasale, che mi lascia sognare un
raffronto con l’accusativo del pronome di prima persona singolare (me, με,
mich, engemet), come a dire: l’uomo è misura di tutte le cose, Mench und Menge, ed io stesso sono la
prima unità di misura che posso utilizzare per figurarmi ciò che mi circonda.
Da MÉR si formano
molte parole interessanti, prime tra tutte MÉR-ET, la quantità misurata, e
MÉR-TÉK, l’unità di misura.
Altrettanto
interessanti sono mérnök e mértan: l’ingegnere è l’uomo delle misure, laddove la
particella -NÖK/-NOK indica una persona che sa gestire qualcosa, come ad
esempio il generale (mil.) è l’uomo che
dirige l’accampamento TÁBOR-NOK, oppure l’agente (comm.) è l’uomo degli affari ÜGY-NÖK; il morfo
-TAN- indica lo studio o la presa di coscenza di qualcosa (TAN-UL, studiare, prendere coscenza, TAN-ÍT, insegnare, TAN-Ú, il testimone, ed infiniti altri casi) e con
esso si forma lo studio delle misure
MÉR-TAN, che è sicuramente più esatto della nostra geometria, la quale dice di essere le misure della terra, ma in realtà è uno studio astratto di casi
meramente teorici.
Se in italiano è
chiarissimo che bilancia è bi-lance, cioè
doppio piatto, il termine ungherese mérleg
ha qualcosa di enigmatico nel secondo morfo -LEG, che, stando al mio
dizionario, è utilizzato in modo errato. È vero: di solito assume valore
avverbiale (fizikailag, esetleg, anyagilag, elvileg,…), ma
è altrettanto vero che mérleg non è
l’unico esempio di sostantivo con tale suffisso: átlag ed egyenleg sono
anch’essi sostantivi ed hanno curiosamente significati in qualche modo legati
alle misure: media (mat.) e somma, ammontare di un credito. Pare che
questi nomi in -leg/-lag siano
comparsi dopo la sistematizzazione della lingua ungherese (la cosiddetta Nyelvújítás) avvenuta alla fine del
Settecento per opera dei grandi letterati magiari dell’epoca sotto la guida di
Ferenc Kazinczy. Non è che prima si pesasse solo a mano: bilancia si diceva mérettyű (lett.: „dispositivo
misuratore”) oppure mércső
(„tubo-misura”), ma poi tali parole furono sottoposte ad un processo di pulizia
linguistica del tutto intenzionale. Forse questo -leg se lo sono inventato di sana pianta, ma stento a crederlo.
Forse su questa scelta ha influito la formazione del superlativo, che ha
bisogno appunto del -leg-, e, si sa,
comparativi e superlativi si basano sul confronto, sulle differenze,… Bah, lasciamola stare ’sta bilancia, che è
appena ricominciato il campionato di calcio e non voglio perdermi alcun MÉR-KŐZ-ÉS,
vale a dire partita, l’evento sportivo in cui due squadre oseranno misurarsi con grande agonismo. Attenzione
a non confondere MÉR con MER. L’uno misura,
l’altro osa. E chi osa, lo fa sempre
avendo misurato i rischi e gli eventuali benefici, altrimenti non sarebbe
coraggio, ma sciocca imprudenza.
L’origine di
questo MÉR pare sia ignota. Personalmente mi piace pensarlo come una risposta,
la risposta numerica alla puntuale domanda Mit
ÉR? „quanto vale?” Su ÉR vedere puntata precedente.
La nostra misura,
invece, quella al di qua del Danubio, è la misura che si usava per tenere conto
del tempo che scorre, e, come dice il saggio, il tempo è il numero del movimento secondo il prima e secondo il poi degli
eventi che hanno luogo nella volta celeste: il sole e soprattutto la luna. E
infatti dentro mensura c’é mensis il mese latino, originariamente lunare,
la più antica e più sacra unità di misura del tempo, quella che per gli antichi
era la radice dei cicli della vita e della riproduzione. Se parrà arduo legare
in italiano luna a mese, sarà scontato in tedesco legare Mond a Monate, a moon il month inglese, a μήνη il μήν greco, e, dato che vi risparmio
l’inflazionatissimo esempio di mens-truazioni,
lascio un posticino in questa educata compagnia lunare allo sboccato mona.
Come è noto, ci
sono differenti tipi di mese lunare. I due tipi più importanti sono quello detto
sinodico, di 29 giorni e mezzo, che si
basa sul movimento della luna rispetto al sole (le fasi lunari) e quello siderale, di circa 27 giorni e sette ore,
che si basa, invece, sul movimento della luna rispetto alle stelle.
L’antico mese
ungherese è indubbiamente il mese lunare sinodico: la definizione di esso è contenuta
nello stesso vocabolo: hónap, dove HÓ
è luna e NAP è sole.
Signori, io una
spiegazione migliore al concetto di mese lunare sinodico non la saprei trovare:
la parola ungherese contiene tutto ciò che c’è da sapere. Dire mese non è esaustivo, dire lunazione non basta: c’è bisogno anche
del sole, perché 29,5 giorni ci vogliono perché la luna da un allineamento col
sole ritorni al prossimo allineamento. Aggiungo anche che NAP significa tanto sole quanto giorno, ed a buon vedere le due cose non sono separabili. A buonissimo vedere, abitando sulla luna un giorno corrisponderebbe esattamente
al nostro mese lunare sinodico, un HÓ-NAP,
un giorno lunare… (!!!!!)
Sono allibito.
Così farneticando
oso dunque dire che l’archetipo linguistico del concetto di misura è la luna. E
allora cosa succederebbe se per un attimo immaginassimo che quel Vergilium me al verso 563 di Georg. IV indicasse proprio una misura lunare?
Scopriremmo che 563 mesi lunari siderali sono quasi 42 anni, proprio l’età di
Virgilio nel 28 a.C., quando, secondo storici e filologi, finì di comporre le
Georgiche: infatti, come è noto, il poeta nacque sub Iulio ancor che fosse tardi nel 70 a.C.
Avrete senz’altro
riconosciuto la citazione dantesca: Inferno, canto primo, verso… Il numero del verso non lo ricordo, andate a
controllare.
Buona giornata a
voi tutti che avete la pazienza di leggere.
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